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Sette giorni a Kabul

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La luce dell’alba, dorata e radente, fa emergere dal freddo buio le vette che circondano Kabul. Per la prima volta dopo tante discese verso la capitale afghana, non mi appaiono come giganti di pietra, mi fanno invece venire in mente una corona di spine. La fila ai passaporti è silenziosa, pochissimi stranieri, tanti afghani. Sono quei pochi fortunati che hanno un doppio passaporto e possono tornare a casa, dalle famiglie, di tanto in tanto. Nell’attesa del timbro si preparano mentalmente a lasciarsi alle spalle il modo di vivere che hanno imparato e a cui si sono abituati a Dubai, Istanbul o Londra, per il tempo che basta a restare a Kabul. Sono ancora vestiti all’Occidentale, anche quegli abiti dureranno il tempo di arrivare a casa e infilarsi uno shalwar khamis.
Persino il traffico – un tempo infernale – sembra essersi dato una calmata. I vigili urbani, notoriamente tarantolati, gesticolano piano. I loro megafoni ripetono istruzioni che sembrano persino gentili. Un tempo prendevano a cazzotti le tue orecchie.
Sulla città grava una cappa fatta di sollievo e di tristezza.
Il sollievo è quello di sapere che nessuna autobomba esploderà oggi e che, insomma, non rischierai di morire come accadeva in passato. Ad ogni luogo che scorre nel finestrino hai associato una paura, una tensione od un lutto. Oggi non è più così.
La tristezza è quella di chi ha perso i suo sogni, a cominciare dalle donne private del lavoro, della scuola, del loro diritto sociale ad esistere. La tristezza di tutti quelli a cui l’Occidente aveva fatto credere che se si fossero esposti (per i diritti, per la democrazia, per la libertà di stampa) le cose sarebbero cambiate. La tristezza è quella di chi si sente in gabbia e sa che non ha alternative oltre che adeguarsi.
Come una goccia d’inchiostro nel fiume, la depressione si dilata per le strade di Kabul. La incontri negli sguardi delle persone.
Accade anche per via della povertà. Vent’anni di ricostruzione occidentale non si sono lasciati dietro nulla salvo un’economia di guerra (sgonfiatasi come un palloncino bucato la notte del 15 agosto del 2021) e tanti burocrati e politici ingrassatisi di soldi che si godono oggi  a Dubai.
Nei ministeri pieni di mullah le carte avanzano a fatica, la burocrazia si inceppa se dietro la scrivania c’è qualcuno che ha passato una vita a pianificare imboscate e piazzare IED. Gli impiegati (le seconde file) dei tempi della Repubblica (anzi come la si chiama ora del “governo” contrapposto all’attuale “emirato”) sono tornati a lavorare, donne escluse. Abbassano la testa, raccolgono le carte ma non vogliono entrare in logiche che a loro – come a molti – paiono insondabili. Impossibile rispondere alla domanda: quando sarà pronto?
I talebani stanno lavorando per restituire proprietà fondiarie di cui si sono impossessati i signori della guerra negli ultimi trent’anni, voglio fare giustizia di quel ladrocinio che (assieme alla liberazione delle donne) considerano radice della crisi morale del Paese. Vogliono fare giustizia ma non si sa quando ci riusciranno.
L’altro sollievo è che nessuno ti chieda la bakshish, la mazzetta, come un tempo per risolvere i problemi. La corruzione è sparita, per fortuna, ma sono rimasti i sistemi biometrici. Dopo il caos iniziale ora i talebani sanno farli funzionare e hanno accesso agli archivi. Dovevano servire a “individuare” titolari di licenze, pratiche, porto d’armi e quant’altro, in un Paese privo d’anagrafe. Oggi servono anche a fare i conti con il passato, nei data base, tra l’altro, c’è scritto chi faceva cosa per il “governo”.
Non ci sono divise né per la polizia né per l’esercito, i talebani li riconosci quando li vedi sui pick up americani o ai posti di blocco. Altrimenti sono dappertutto e se non ci sono hanno i loro informatori, le sentinelle, come ai tempi del passaggio dei convogli militari prima che esplodesse un’IED. La sicurezza è totale come il controllo.
La povertà morde e affama ma si vede poco, sta chiusa nelle case dove si mangia una volta al giorno, a volte ogni due giorni, sta nella testa di chi vende un figlio o un rene, di chi vorrebbe andarsene ma aspetta perchè l’Iran respinge afghani ogni giorno e il Pakistan si prepara a deportazioni di massa. All’apparenza è cambiato poco, i ristoranti ultramoderni e occidentali sono rimasti aperti come i negozi che volevano essere Dubai. Ma sono semi vuoti, pochi se li possono ancora permettere e chi ci va parla a bassa voce, pur sapendo che nessuno entrerà dalla porta d’ingresso sparando e facendosi esplodere.
Questo continua ad essere il Paese  dove il tempo conta poco ma ad un certo punto scade. Nessuno sa quanto durerà l’Emirato che oggi non ha nemici come fu per Karzai e i suoi dopo il 2001. Non ha rivali né oppositori ma spesso, qui, i nemici vengono dall’interno. Per ora, nonostante una tassazione diventata efficace e capillare, l’isolamento internazionale pesa, l’economia boccheggia e il futuro del Paese è incerto. Reggerà l’Emirato?
Intanto sui grandi fiumi galleggiano nuove guerre, una con il Tagikistan, l’altra con l’Iran. L’Afghanistan è l’archetipo di tutti i conflitti contemporanei, lo ricorderà a chi fa finta di non saperlo quando qui si combatterà per l’acqua.
Il succo di melograno è aspro, troppo. Eppure siamo ad ottobre, ennesimo mese di una siccità che dura da troppi anni. Non inquina per nulla l’Afghanistan ma paga il prezzo del cambiamento climatico. Il succo è di un rosso denso, viene da Sorobi, sulla strada per Jalalabad dove ti lasci le montagne alle spalle e senti il sub continente indiano più vicino. Ripeto sempre che quelli di Kandahar sono più dolci, me l’hanno insegnato e me ne sono convinto. Quella Kandahar e quell’Helmand dove l’oppio è stato messo al bando, un divieto che ai talebani costò il sostegno popolare nel 2001, chissà questa volta quanto durerà.
La guerra è finita ma le vittime continuano. Sono i neo-amputati, fatti a pezzi da una mina lasciata chissà da chi negli ultimi 42 anni, che arrivano all’ambulatorio della Croce Rossa per una protesi o all’ospedale di Emergency per essere rimessi insieme. Cure mediche che ormai non possono più permettersi in tanti, nemmeno quando sono gratis perchè la benzina per arrivarci costa troppa.
L’Afghanistan se lo sono dimenticato tutti e non è una novità ma resta il Paese più bello del mondo, al crocevia del mondo. Di qui prima o poi la storia tornerà a passare e il mondo si ricorderà della sua esistenza, come sempre quando sarà troppo tardi.

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2 Commenti

  1. Le rose dei giardini di Kabul, come le sue bambine: soavi e striminzite.
    Grazie per queste immagini della città come è, non come si vuol far credere che sia.
    Sperando che, stavolta, ci ricordi dell’Afghanistan prima che sia troppo tardi, e per ragioni diverse da quelle di un non lontano ieri.

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Nico Piro

Provo a dare voce a chi non ha voce, non sempre ci riesco ma continuo a provarci. Sono un giornalista, inviato speciale lavoro per... continua a leggere