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La lezione afghana in Siria

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Sarà che la voglia di dimenticare i nostri errori è un viatico perfetto per ripeterli, sarà che l’esercizio della meraviglia, assieme a quello della paura, da propinare all’opinione pubblica sono il filo conduttore dell’ultima decade. Sta di fatto che nelle varie letture della crisi siriana, non ho mai praticamente visto richiamare il modello afghano che è invece perfetto per “interpretare” la crisi in atto nel Paese.
Proviamo a farlo per punti chiave:

La guerra per procura
In Siria si stanno dando battaglia diverse potente o “key players” internazionali, quasi mai direttamente, quasi sempre per procura. E’ esattamente quanto avvenuto dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, quando le varie fazioni dei mujaheddin colpirono l’ “orso” sovietico per conto dell’America e di vari Paesi mussulmani. Un quadro che si è complicato dopo il ritiro sovietico con lo scontro tra i “signori della guerra” e l’intervento iraniano a favore della minoranza sciita.
Al momento in Siria, abbiamo due blocchi in campo: gli Stati Uniti (per inciso fornitori dell’F16 turco che ha abbattuto il bombardiere russo lungo il confine del razzo anticarro, che ha abbattuto l’elicottero russo durante la missione di recupero del pilota sopravvissuto), la Turchia e i Paesi del Golfo, tutti interessati alla caduta di Assad sia per motivi religiosi (neutralizzare un avamposto sciita sul Mediterraneo a favore di una presenza sunnita) sia per motivi territoriali (ad Ankara non dispiacerebbe riprendersi un pezzo di quello che fu l’impero ottomano). Un blocco – questo – a sua volta diviso sul tema dell’ISIS, sin’ora sia la Turchia che i Paesi del Golfo non hanno avuto problemi a sostenere il “califfato” mentre è radicalmente fallito il tentativo multimilionario degli americani di creare una guerriglia anti-Assad ma anti-ISIS
L’altro blocco è composto dalla Russia e dall’Iran che sostengono Assad per motivi diversi (Mosca per non perdere la sua base navale e ora la sua base aerea sul Mediterraneo; l’Iran per non perdere un governo sciita a far da contrappeso alle vicine potenze sunnite). Vanno poi aggiunte le truppe degli Hezbollah, i miliziani sciiti che vengono dal confinante libano e legati all’Iran, e la Cina, non impegnata militarmente (per ora, ma l’uccisione dell’ostaggio cinese potrebbe accelerare decisioni di segno opposto) ma schierata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a favore di Damasco.
Come in Afghanistan, il conflitto siriano da guerra regionale si è trasformato in uno scontro globale. Tra le altre cose questo significa che un incidente “circoscritto” come l’abbattimento del jet russo può avere ripercussioni a livello molto più vasto, non casuale è – per esempio – il taglio del gas all’Ucraina subito dopo l’episodio sul confine turco-siriano.

Il burattinaio turco
La rampante Turchia, ormai potenza regionale dopo anni di crescita economica oltre che strategico avamposto della Nato verso il Medio Oriente, all’apice della deriva religiosa e nazionalista di Erdogan, ci ha messo poco a sbarazzarsi dell’alleanza con Assad. Il suo ruolo nel conflitto siriano è via via cresciuto mentre attraverso il suo confine transitavano jihadisti, rifornimenti e armi per i ribelli, fino a diventare una sorta di “burattinaio” delle forze anti-Assad. Esattamente come aveva fatto il Pakistan, prima, con i gruppi dell’opposizione afghana in esilio a Peshawar e poi con i talebani (ruolo che continua a tutt’oggi). Oggi la Turchia – come il Pakistan – comincia a pagare il conto per aver maneggiato tanto a lungo il vaso di Pandora siriano, l’attentato kamikaze del 10 ottobre ad Ankara contro la manifestazione pacifista ne è la tragica prova.

Il mosaico etnico-religioso
Ripulite le minoranze religiose (yazida e cattolica) dall’avanzata dell’ISIS, lo scontro resta concentrato tra sunniti e sciiti ma al mosaico siriano vanno aggiunte le tessere etniche.
Il Paese che non c’è (i curdi sono divisi tra Turchia, Iran, Iraq e Siria) dopo aver preso corpo nel nord dell’Iraq, sta prendendo forma anche nel nord della Siria. Le truppe curde sono le uniche truppe di terra a disposizione contro l’ISIS (parliamo sia dei peshmerga in Iraq che dei corpi di autodifesa nell’area di Kobane) ma i bombardamenti turchi le hanno duramente e deliberatamente colpite perché Ankara – dopo anni di terrorismo interno – sta usando la questione curda come elemento di propaganda interna e, soprattutto, non vuole cedere alla sua minoranza curda quella stessa autonomia conquistata sul campo oltre confine.
Altro elemento di complicazione è la presenza lungo le aree di confine, della minoranza turcomanna, salita agli “onori” della cronaca per aver ucciso il pilota russo paracadutatosi dopo l’abbattimento del suo jet da parte dell’aviazione turca per una presunta violazione dello spazio aereo.

I profughi
La guerra civile siriana, esattamente come quella afghana, ha vomitato milioni di disperati in fuga dall’orrore nei Paesi confinanti. Un carico fortissimo per il Libano, pesante per la Turchia che ha poi contribuito a generare la fine dell’Europa. Un carico che destabilizza i Paesi ospitanti (il Pakistan all’epoca, in maggior misura il Libano oggi dove è a rischio il precario equilibrio etnico-religioso) oltre a distruggere intere generazioni di persone. Basta pensare che il movimento talebano nacque nelle madrasse pakistante (scuole religiose) perchè li si concentravano migliaia e migliaia di giovani, per la mancanza di un’effettivo sistema scolastico per i giovani all’interno dei campi profughi oltre confine.

L’intervento russo
Dopo essersi limitata per tre anni a fornire armi (e probabilmente consiglieri militari) oltre che copertura diplomatico all’alleato di Damasco, Mosca nei mesi scorsi è scesa in campo direttamente in Siria con una notevole campagna militare proprio come aveva fatto per puntellare il potere del traballante partito comunista afghano, dopo la rivolta di Herat. All’epoca, un modo per lanciare un segnale a tutto il blocco comunista, oggi il tentativo di rilanciarsi sulla scena internazionale e riguadagnare popolarità grazie a quella che viene presentata non come un intervento filo-Assad ma una campagna anti-ISIS.

L’impotenza occidentale
Esattamente come dopo il ritiro sovietico dall’Afghanistan, l’occidente si è totalmente disinteressato del mattatoio siriano dopo aver pagato caro – da tanti punti di vista – gli interventi dopo l’11 settembre a Baghdad e Kabul.

I neo-talebani
Esattamente come l’emirato afghano, il “califfato” è una zona franca per le organizzazioni criminali e terroriste. Con una differenza di fondo: l’emirato ospitava Al Qaeda e Bin Laden non era retto da Al Qaeda. In Siria, l’ISIS è anche il padrone di casa, non solo il soggetto che sfrutta la zona franca per preparare i propri attentati all’estero.

Le conseguenze economiche
Il ritiro sovietico dopo la dispendiosa campagna afghana coincise con il crollo dell’economia pianificata di Mosca. Quali saranno gli effetti globali del conflitto siriano è ancora presto per dirlo ma di sicuro ci saranno. L’allarme terrorismo è destinato a scombussolare i conti dei Paesi europei che in questi anni sono rientrati nei parametri di deficit, tagliando anche e spesso sia sulla sicurezza che sulle spese militari. Una nuova crisi economica è alle porte?

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Nico Piro

Provo a dare voce a chi non ha voce, non sempre ci riesco ma continuo a provarci. Sono un giornalista, inviato speciale lavoro per... continua a leggere