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Dopo la jungla

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Poco più di un anno fa, la jungla veniva rasa al suolo. Era il secondo e conclusivo abbattimento della squallida baraccopoli che per vent’anni aveva ospitato una popolazione di rifugiati e migranti, ad ondate variabili.
Tutto era nato come un piccolo accampamento nei pressi dell’autostrada e del porto, il punto ideale per tentare ogni notte di passare clandestinamente il confine e arrivare nel Regno Unito. Al momento del primo parziale abbattimento, la jungla ospitava duemila persone, ridotto a metà della sua estensione il campo aveva raggiunto una popolazione record di diecimila anime con latrine, luoghi di culto, cucine, negozi, ristoranti, scuole, asili, biblioteche.
Un anno dopo, la jungla se n’è andata ma i migranti continuano ad arrivare a Calais, dopo una fase di stanca adesso siamo a circa un migliaio di presenze. Come ha ribadito Macron nelle scorse settimane, durante una visita nella cittadina (o meglio alla polizia locale), la Francia non consentirà più la formazione di un’altra jungla. Purtroppo, quelli del presidente sono chiaramente proclami mediatici senza alcuna sostanza in termini di soluzione al problema, utili per lo più a lanciare un messaggio all’elettorato su un tema “sensibile” e a cercare sostegno per un controverso progetto di riforma del diritto d’asilo.
Intanto migranti e rifugiati sono sempre lì, in questa fase provenienti per lo più dall’ Afghanistan e dal Corno d’Africa. La polizia viene mandata a distruggere ogni “punto di fissazione” in pratica ogni accenno di accampamento, rendendo vani i tentativi dei volontari di fornire riparo a quelle persone dal vento dell’Atlantico, dalla pioggia perenne, dal fango e persino dalla neve. I migranti vivono nei boschi e in alcuni edifici abbandonati, le loro sono condizioni inumane che fanno persino rimpiangere quel posto infernale chiamato la jungla. Il risultato è che sulla polizia si addensano denunce di uso eccessivo della forza, violenze e abusi. Denunce come quelle di Human Right Watch, confermate anche da indagini interne  e ribadite dall’intellettuale Yann Moix. Del resto se gli ordini sono togliete i giacigli e impedite a delle persone di dormire di notte, il cortocircuito è assicurato.
Nei giorni scorsi abbiamo documentato per il Tg3 una battaglia tra migranti e polizia, pietre contro lacrimogeni. La polizia era arrivata a distruggere un accampamento e i migranti hanno reagito con una sassaiola per difendere i propri giacigli, tra vento e pioggia. La violenza non può essere mai giustificata nè compresa ma nel fango di Calais sembrano davvero affogare insieme, oltre all’umanità, il torto e la ragione, facendo smarrire ogni sorta di punto di riferimento logico.

L’unica strategia che sembrano avere le autorità francesi è quella di rendere talmente inospitale Calais (o meglio le radure della sua zona industriale, visto che in città è rarissimo vedere un rifugiato) da spingere i migranti a radunarsi altrove (e i primi effetti di questa strategia è la comparsa di un embrione di jungla in Normandia) ma come mi ha detto un’amica della cittadina francese: “Possono abbattere la jungla ma se non spostano il Regno Unito c’è poco da fare”.
Sembra una battuta ma è così, Calais è il punto di maggior vicinanza tra Regno Unito ed Europa continentale, non a caso – oltre al servizio traghetti – ci passa il tunnel sotto la manica, con il trasbordo di camion, auto e il treno veloce. Inoltre per un accordo del 2003, il confine britannico è fisicamente nel porto di Calais; può sembrare un dettagli burocratico ma non lo è. In pratica i cosiddetti “clandestini” non vengono fatti imbarcare perché vengono fermati da agenti britannici direttamente nello scalo, per capirci, come se la Guardia di Finanza controllasse i documenti sulle spiagge di Tripoli. Questi accordi non sono stati messi in discussione da Macron nel suo ultimo incontro con gli inglesi che ha portato solo ad un risultato: altri 50 milioni di euro versati alla Francia da Londra per la sicurezza nell’area. Peccato che ormai a Calais non ci sia praticamente più spazio per costruire recinzioni (l’ultima aggiunta alle barriere di ferro e filo spinato è appunto un chilometro di muro alto 4 metri sui due lati dell’autostrada) e che quasi 1200 agenti della CRS, la celere francese, siano dispiegati in via straordinaria nella cittadina, da anni. Tutti provvedimenti che non sono serviti a nulla.

Le associazioni di volontariato sono attestate nel loro quartier generale, un vecchio capannone industriale soprannominato “the warehouse”, alla periferia di Calais tra magazzini di vino francese con i parcheggi pieni di auto dalla targa inglese attirate dalla promessa di risparmiare fino a 4 sterline a bottiglia rispetto ai prezzi dei supermercati d’oltre manica.
Nella penombra della “warehouse” (troppo grande per prendersi il lusso di illuminarlo) si stipano vestiti e derrate alimentari, da un angolo arrivano la musica a palla e i bagliori delle (uniche) luci al neon, è la refugee community kitchen. Era arrivata qui nel 2016 per un mese quando c’era ancora la “jungla”, due anni dopo questa organizzazione britannica è ancora qui. Ha organizzato una cucina industriale che gestisce in maniera perfetta, sfornando tra i 2 e i 3mila pasti al giorno, l’unica fonte di cibo caldo per i profughi.
Nella cucina si lavora in un’atmosfera carica di energia e di gioia che fa da contrasto allo squallore e alle tensioni che si incontrano sul campo dove è difficile lavorare per i giornalisti. Il clima è pesante, tra una vita in condizioni estreme e le continue operazioni di polizia, dietro ogni giornalista si vede un poliziotto. Per girare le immagini dei miei servizi è stato necessario una lunga trattativa con i leader dei migranti, che pure non ci ha consentito di lavorare del tutto in sicurezza con diversi momenti di tensione, dovuti in particolare ai difficili rapporti tra eritrei e afghani.
Questi rapporti hanno portato ieri ad uno scontro tra i due gruppi nel quale si sarebbe messo di mezzo un “passeur” (un trafficante di quelli sui quali non si sentono mai notizie di arresti o maxi-operazioni) che ha tirato fuori la pistola mentre gli eritrei caricavano con le spranghe. Risultato: 22 feriti, di cui 4 sospesi tra la vita e la morte. Pronte le dichiarazioni di dura condanna del Ministro degli Interni francese, come dargli torto, del resto di fronte ad una tale violazione della legalità ma il punto è anche un altro: se lasci le persone a vivere come le bestie (se de facto aggravi la loro situazione) è ovvio che alla fine accadano bestialità come queste.

E ora mi aspetto qualche altra maxi-operazione a Calais come ai tempi della demolizione della jungla, un mostrare i muscoli che non risolverà il problema. Al massimo lo sposterà di qualche chilometro.
Schiacciati dalla propaganda e dalle battaglie elettorali, sembra che nessun governo europeo abbia la forza di sostenere una strategia che sia continentale su questo fenomeno, invece si lascia un problema epocale sulle spalle di piccole località che diventano loro malgrado delle icone: da Calais a Lampedusa, passando per Idomeni.

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  1. […] Da metà novembre dozzine di “barchette” stanno provando ad attraversare la Manica in perenne tempesta. Opera di trafficanti che le riempiono di profughi disperati e pronti a pagare 6000 euro a testa, stanchi di restare nella boscaglia di Calais dove ormai le operazioni della polizia per distruggere tende e accampamenti sono al loro record storico (dal novembre 2017 al novembre 2018 se ne sono contate 393 secondo un rapporto delle ONG che lavorano sul posto e che verrà diffuso a giorni). Se volete rendevi conto della situazione a Calais qui i miei reportage del gennaio 2018 e anche qui […]

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Nico Piro

Provo a dare voce a chi non ha voce, non sempre ci riesco ma continuo a provarci. Sono un giornalista, inviato speciale lavoro per... continua a leggere