Finalmente ho attimo per scrivere (con un po’ di ritardo) di una storia che davvero non mi piace. Mentre ci preoccupiamo – giustamente – delle cyberingerenze russe nella campagna elettorale americana o delle falle nella crittografia del più popolare programma di messaggistica istantanea, ci sfugge forse la vulnerabilità dei cyber-consumatori e dei creatori di “contenuti” di fronte alla strutture di servizio del web.
Strutture all’apparenza “neutre” perché si occupano solo di servizi come quelli finanziari, che invece hanno una potenziale capacità di governare i contenuti e di censurare argomenti scomodi o eventualmente a loro (e/o a chi li controlla) non graditi.
Nel ’98 scrissi per MicroMega un saggio sul ruolo dei motori di ricerca nella selezione dei contenuti modulandone l’accessibilità dai portali dopo operazioni di “search”, un tema simile a quello che emergeva nel mio libro dello stesso anno “Cyberterrorismo” (Castelvecchi, Roma).
E’ passato un bel po’ di tempo ed oggi mi ritrovo all’incirca allo stesso punto, per esperienza diretta come fosse un segno della nemesi storica.
PayPal è un’entità di servizio, la cui popolarità crescente è legata proprio alla sua capacità di semplificare la vita ai consumatori per gli acquisti di e-commerce. Rispetto ai “contenuti” (cosa compri) PayPal dovrebbe essere (all’apparenza è) assolutamente “neutra”, in quanto si occupa solo di facilitare e velocizzare lo shopping on line.
A lungo abbiamo provato a capirci qualcosa fin quando, stando a quanto ci ha detto il servizio clienti di PayPal la keyword Afghanistan finiva nelle maglie di un’agenzia del governo americano con compiti di vigilanza finanziaria e quindi la transazione veniva annullata; probabilmente perché “sospettata” di finanziare chissà quali misteriose attività.
Il servizio clienti l’ha detto all’editore Lantana e ai nostri sottoscrittori in telefonate distinte, in Italia e negli Stati Uniti.
Quella di PayPal è, a mio avviso, un atto di censura digitale: non ne indago la causa e non voglio mettere in dubbio la buona fede del servizio ma mi concentro sull’effetto. Insomma non entro nel merito: è un atto voluto? è un atto legato alla pedissequa applicazione di norme pensate per ben altre “operazioni”? è un eccesso di zelo di qualcuno che non ha verificato bene (operatore o algoritmo)?
Semplicemente l’effetto è inquietante e i danni che abbiamo subito, se proiettati su vasta scala, hanno la potenzialità di tagliare fuori dal mercato alcuni libri scomodi, alcune riviste controcorrente, film fuori dal coro, in generale contenuti sgraditi a PayPal piuttosto che alla struttura di servizio X o Y e così via.
Come abbiamo risolto? Mi verrebbe da dire “all’italiana”.
Alla fine, dopo aver capito dove fosse il problema (e credetemi ce n’è voluto di tempo), siamo riusciti a superare il blocco – oserei dire all’italiana.
L’editore ha riformulato le richieste di pagamento limitandosi a dichiarare il pagamento per un libro, non la specifica completa che veniva fuori dall’adesione alla campagna di crowdfunding. oppure chiedendo di utilizzare altri mezzi di pagamento (niente di misterioso, carte di credito tra i circuiti principali che non sembrano subire l’impatto di quelle normative a cui invece PayPal si scopre tanto sensibile).
Mi resta un dubbio: perchè chi dagli Stati Uniti ha usato carte di credito in via diretta (sulla “cassa” del portale crowdfunding di Ulule) e non PayPal ha visto tranquillamente approvata la transazione? Procedure/algoritmi/operatori più zelanti e preparati o minor invasività sull’oggetto della transazione?