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“Restrepo” e la retorica anti-embed

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Restrepo - Battle Company in Korengal
Restrepo - Battle Company in Korengal

I film sull’Afghanistan, in generale, sono pochissimi (la memoria corre al magnifico “Ritorno a Kandahar”), tra quelli sulla guerra (più recente) in Afghanistan ricordo solo “Leoni per Agnelli”. Pochi anche i documentari, per esempio il duro “Taxi to the Dark Side”. A questa lista si è da poco aggiunto un film-documentario che ha aperto e chiuso il festival di Sundance 2010, baluardo del cinema non-commerciale negli Stati Uniti. Lo ha chiuso perchè dopo la serata inaugurale del festival è tornato in scena durante la serata di premiazione; ha vinto la sezione dei documentari.

Il film si chiama “Restrepo”, e mi ci sento particolarmente legato pur non avendolo visto, perchè ho incrociato la strada degli autori e ho vissuto esperienze e luoghi raccontati in questo film-documentario oltre ad aver conosciuto sul campo, a Korengal, parte dei soldati che ne sono protagonisti, gli uomini della battle company della 173ma brigata aviotrasportata dell’esercito americo, 2ndo Battaglione “The Rock”.

“Restrepo” è stato girato da Sebastian Junger e Tim Hetherington. Il primo è famoso per il suo capolavoro letterario di docu-fiction “La Tempesta Perfetta” (da cui il film omonimo), con trascorsi da reporter di guerra in Afghanistan negli anni ’90. Il secondo, è un fotoreporter diventato famoso per aver scattato sempre nella valle di Korengal (meglio nota come la valle della morte provincia di Kunar, Afghanistan orientale) la foto che gli fatto vincere il world press award del 2008 (“la stanchezza di un uomo, la stanchezza di una nazione – qui per vedere la foto, entrambi scrivono per Vanity Fair). Il film ha un punto di forza: è stato girato lungo tutto l’anno di servizio nella valle, una decina di viaggi embed che hanno portato i due autori a coprire praticamente tutte le esperienze vissute da questi uomini nel luogo che incarna la guerra in Afghanistan e tutte le sue contrattizioni. (solitamente gli embed non arrivano ad un mese di durata per mille motivi pratici dei giornalisti che li svolgono). Gli autori hanno poi incontrato di nuovo gli stessi militari a Vincenza, dove la 173ma fa base, per raccogliere i loro ricordi su quell’infernale anno.

“Noi siamo già famosi” mi ha detto, una volta, uno degli anziani della valle (che nel film si vedono durante estenuanti e inconcludenti shura, riunoni tribali) durante la mia permanenza lassù, in uno scenario naturale bellissimo a parte i bombardamenti e le imboscate. Una frase che dice tutto sul destino di quella valle, ormai un’icona della guerra in Afghanistan citata persino in diverse menzioni di premi giornalistici (tra cui l’Ilaria Alpi, assegnato nel 2008 a me ed al collega Gianfranco Botta del Tg3) ed ora addirittura in recensioni cinematografiche.

“Restrepo” sembra straordinario (dico sembra perchè non l’ho visto- mi baso sulla mia conoscenza del lavoro dei due e sui materiali preliminari pubblicati in questi ultimi tre anni “in pillole” come articoli, servizi tv, ecc. ecc.). Un impietoso quadro delle contraddizioni e del tono di surreale della guerra in Afghanistan, con le quali devono ogni giorno confrontarsi le truppe occidentali, immerse in un’ambiente ostile o – nella migliore delle ipotesi – incomprensibile. Un film da vedere per capire meglio perchè in Afghanistan si gioca una sorta di “tris” sul campo di battaglia, il “tic-tac-toe”…un gioco dove alla fine non vince mai nessuno o meglio nessuno può vincere.

Restrepo - Junger ed Hetherington
Restrepo - Junger ed Hetherington

Commento. “Restrepo” è un film embed, ovvero girato al seguito delle truppe americane. Ha vinto il Sundance, icona dell’indipenza. Spero che tutto questo aiuti a superare una preconcetta e salottiera avversione all’embed, cominciata da quando questo termine è entrato in voga (Iraq 2003) sull’onda della (giustificata) rabbia contro una guerra sbagliata, tra le più assurde di sempre. La retorica anti-embed presuppone che articoli, servizi, reportage realizzati al seguito di militari non siano prodotti giornalistici degni di questo nome, diciamo anche non indipendenti, asserviti. Chi si nasconde dietro questa retorica dimentica che, quando non si chiamava embed, con queste modalità sono state raccontate pagine memorabili di guerra che altrimenti non si sarebbe potuto descrivere/mostrare: dallo sbarco in Normandia alla guerra civile spagnola – anche Robert Capa era embed! – per finire alla guerriglia anti-sovietica dei mujaheddin in Afghanistan. Inoltre alcuni fanno finta di non capire o non sanno che ci sono – per esempio nell’Afghanistan di oggi – zone dove semplicemente per i giornalisti non è possibile andare se non al seguito delle truppe, pena la vita o peggio (sofferenza per un intero Paese) un sequestro. Senza l’embed oggi non sarebbe possibile mostrare l’assurdità della guerra in Afghanistan, come dimostra “Restrepo” e tante altre pagine di bel giornalismo scritte di recente. Nel mio piccolo è la stessa cosa che ho provato a fare, trovandomi a scegliere tra non raccontare/mostrare nulla e farlo in modalità embed. Ho scelto la seconda opzione perchè ho sempre pensato che vedere un soldato che spara in mezzo ad inaccessibili montagne o una vittima, una sola vittima civile, oppure una famiglia in fuga dalla propria casa…beh che tutto questo valga centinaia di note ufficiali che fanno la conta delle vittime o di editoriali scritti da colti intellettuali; che lo valga a prescindere dal fatto che quelle immagini siano state riprese al seguito dei soldati occidentali, dei talebani o muovendosi autonomamente (come speriamo di poter fare, prima o poi in Afghanistan). Non sto dicendo che l’embed è il migliore dei mondi possibili, ma solo che ultimamente è molto spesso l’unico. Certo è uno strumento delicatissimo che si presta a manipolazioni e condizionamenti. Soprattutto richiede – forse più che in altri contesti – onestà intelluale, grande sforzo professionale, caparbietà e un sentimento di dovere ulteriore verso il pubblico cui spiegare anche in che condizioni si è lavorato affinchè chi guarda o legge possa fare la sua “tara”, al di là di quella già fatta (auspicabilmente) dall’autore.

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Nico Piro

Provo a dare voce a chi non ha voce, non sempre ci riesco ma continuo a provarci. Sono un giornalista, inviato speciale lavoro per... continua a leggere