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La burocrazia di Piantedosi punisce chi salva i migranti

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Rescue - Foto di Jeremie Lusseau
Rescue – Foto di Jeremie Lusseau

Giorni dopo la sua uscita in edicola (giovedì 23 novembre)L, quindi nel rispetto del lavoro della redazione, pubblico il testo della mia testimonianza pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” sulla mia esperienza a bordo di Ocean Viking

“All crew! All crew!”. Sono passate da poco le 23 del 10 novembre quando la radio scaraventa tutti fuori dalle cuccette della Ocean Viking. La nave di ricerca e soccorso migranti della ong Sos Mediterranee è di pattuglia a nord-ovest di Tripoli. La zona è quella delle piattaforme petrolifere, le cui luci spesso ingannano le barche dei rifugiati come un miraggio della costa italiana. Il primo recupero avviene a poca distanza dalla murata della nave che con le sue luci fende il buio. Vengono salvate 33 persone, tra loro un minore, tutti del Bangladesh eccetto un libico. Terrorizzati, intirizziti, bagnati ma in buone condizioni. Sul ponte di comando intanto Luisa Albera, la coordinatrice delle operazioni Sar (Search and Rescue), riceve nel giro di 40 minuti comunicazione del “porto sicuro”. Il decreto Piantedosi ha archiviato l’epoca in cui le località di sbarco delle persone soccorse venivano decise anche dopo un’agonia di giorni. Ma non è una tempestività benigna: il porto assegnato è Ortona, in Abruzzo, a tre giorni e mezzo di navigazione. Nel pattugliamento precedente Ocean Viking aveva dovuto sbarcare a Ravenna poi a Taranto.

E’ come se in una città piena di incidenti stradali si tenesse fuori gioco un’ambulanza per una settimana. Arrivare ad Ortona, tra l’altro, costa alle casse della ong francese circa cinquantamila euro di carburante. Dietro lo schermo della “solidarietà interna” e dei porti sotto stress in Calabria e Sicilia di cui parla il governo, si legge l’intento punitivo del decreto denunciato dalle ong.

In un impasto di sonno e adrenalina, torniamo nelle cuccette. La notte ci può riservare di tutto: il mare è favorevole alle partenze dalla Libia. Poche ore dopo: “All crew! All crew!”. Incrociando una segnalazione di Alarm phone – il centralino fatto da volontari che raccoglie gli sos dei migranti – e i dati radar, la Ocean Viking cerca un’altra barca in avvicinamento, da 27 a 16 miglia di distanza.

“Se paghi per 400 cavalli, devi usarli tutti”. Scherza David il conduttore del gommone Eazy 1. Scherza ma il messaggio lo capiamo tutti. Mentre l’argano ci fa sbattere per l’ultima volta sulla murata della nave, i quattro membri dell’equipaggio di soccorso e io (che sono lì per vedere con i miei occhi) ci battiamo con un pugno sull’elmetto. Messaggio ricevuto: dobbiamo tenerci forte. Attraversiamo l’oscurità totale ad alta velocità, il rischio di una collisione (per esempio con un container abbandonato) è altissimo ma non c’è tempo da perdere, stiamo cercando una barca che potrebbe affondare. Sulla piattaforma di prua, Giannis brandeggia una torcia, via radio Luisa ci guida per quel poco che vede dal radar ma è una ricerca difficilissima. Venti minuti dopo la torcia fa emergere una lama bianca dall’oscurità, le grida di gioia dei migranti sovrastano il rumore dei motori. Ci avviciniamo ordinandogli di restare immobili: la gioia e il panico possono far capovolgere la carretta del mare. Il puzzo è inconfondibile: benzina. La barca è allagata: un misto di acqua di mare e carburante che ustiona la pelle e brucia i polmoni. Salvati 2 sud sudanesi e 32 siriani. Alcuni hanno inalato tanta benzina da sembrare allucinati. Uno di loro avrà un malore una volta portato a bordo, salvato solo grazie a due giorni di ossigeno. In plancia Luisa non si è dovuta dedicare solo a guidare i soccorsi ma a cercare (come prevede il decreto) il coordinamento della autorità competenti, un ping pong tra Italia e Libia, fatto di email e telefonate. Come chiedere i documenti a qualcuno che annega prima di lanciare un salvagente. Burocrazia obbligatoria perché per le nuove norme, dopo il primo soccorso le navi ong devono mettere la prua verso il porto assegnato e arrivarci tempestivamente. Non possono restare in zona per salvare altri, salvo sotto coordinamento delle autorità, quello che Luisa cerca di ottenere.

Riprendiamo la navigazione ma il pomeriggio successivo la radio VHF gracchia: barca in difficoltà, niente cibo, niente acqua. Il mayday arriva da quello che si identifica come un peschereccio. Sul ponte Luisa cerca il coordinamento delle autorità libiche: dall’altra parte del telefono satellitare, c’è qualcuno che non parla nemmeno inglese. Le email restano senza risposta.

Eazy 1 va in avanscoperta, a quasi 35 nodi di velocità scrutiamo un’orizzonte circolare. E’ una ricerca impossibile ma spunta Colibri 2. L’aereo di Pilotes-Volontaires guida dal cielo il nostro gommone e va in circolo sulla barca per segnalarcela da lontano. Il mare è calmo eppure la barca ondeggia, perché troppo carica e piena d’acqua (al solito mista a benzina). Salvare le 61 persone a bordo (compresa una famiglia siriana con due bimbi intorno ai dieci anni) è complesso, per evitare che l’imbarcazione si capovolga devono intervenire anche gli altri due gommoni, Eazy 2 e 3.

Due ore dopo questo soccorso, Ocean Viking incontrerà un peggioramento meteo più a nord, ci sarebbe finito dentro anche quel barcone già sbilanciato. Difficile credere che avrebbe potuto farcela.

Per quello che ho visto con i miei occhi, posso testimoniare che senza l’intervento di Ocean Viking le due imbarcazioni soccorse, dopo l’assegnazione del porto sicuro, sarebbero andate incontro al naufragio: morte sicura. Ocean Viking ha rispettato la legge del mare: salvare tutti. Legge tradizionale per secoli, formalizzata per la prima volta nel 1758, poi dettagliata dal diritto internazionale ed umanitario. Eppure ad Ortona, quattro auto delle autorità hanno portato a bordo non un premio per aver salvato vite ma un decreto di fermo, venti giorni e 3300 euro di multa. Salvare vite è illegittimo per l’Italia.

6 Commenti

  1. Salvare vite è un dovere! In quale paese viviamo? Queste vicende mi indignano profondamente! Qualcuno pensa mai che potrebbe succedere anche a noi? Perché è già’ successo: ricordo mio nonno ( magistrato a Venezia) quando mi raccontava dell’arrivo degli esuli dall’Istria e Dalmazia…lasciati al largo per giorni e poi alloggiai in luoghi incredibili, anche nei bunker sul lungomare. Ed esplose un’epidemia di tbc. Sono passati 70 anni e non è cambiato niente! Abbiamo bisogno dei ‘diversi’…🥲

  2. Grazie delle tue testimonianze , mi sorprende come l’uomo possa rimanere indifferente anzi ostacolare i soccorsi “ uno uguale tutti “ non esistono diversità ma solo fratelli che hanno bisogno di aiuto

  3. “Come chiedere i documenti a qualcuno che annega prima di lanciare un salvagente”. … Frase-chiave, non la sola, di questa tragedia senza fine. Per fortuna c’è ancora chi “vede con i propri occhi” e denuncia. Malgrado la salottiera indignazione degli opinionisti da talk.

  4. La cronaca molto dettagliata ci fa capire benissimo cosa accade nel mare mettendo in relazione le persone disperate che scappano dall’inferno giocandosi tutto nel viaggio della disperazione , all-in, tutto o niente e cio che fanno le ong. Per contro la burocrazia, azzarderei la politica assurda dell’Italia. Una cronaca mai vista nei telegiornali delle reti nazionali. Infatti ieri sul tg1 la prima notizia era il Festival di Sanremo, si erano dimenticati delle guerre in Palestina, Ucraina e l’attentato a Parigi

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Nico Piro

Provo a dare voce a chi non ha voce, non sempre ci riesco ma continuo a provarci. Sono un giornalista, inviato speciale lavoro per... continua a leggere