Una mamma in viaggio per curare il figlio, un reportage lungo un anno, una storia a lieto fine, una catena di solidarietà, l’impossibile diventato possibile. E’ tutto questo “il viaggio di Amir”, una storia che mi ha coinvolto in prima persona e che ben spiega quanto sbagliato sia considerare i “migranti” come una massa indistinta di persone piuttosto che come una somma (temporanea) di storie uniche e individuali.
Con Amir e sua mamma Reziah, grazie anche alla mia collaboratrice greca Nikolia Apostolou, ci siamo incontrati nel febbraio del 2020 a Lesbos mentre cercavo di raccontare l’inferno del campo di Moria e la condizione dei bimbi (oltre cento individuati da MSF) con patologie gravi che non potevano essere assistiti dal piccolo ospedale dell’isola ma a cui il governo greco negava il trasferimento sulla terraferma. Amir non era in quella lista, era un caso perso nella massa delle oltre 20mila persone che vivevano in condizioni drammatiche tra gli oliveti vicino al villaggio di Moria.
All’epoca del nostro incontro, Reziah non sapeva quale malattia avesse il bimbo, cercava diagnosi e una cura che nessuno riusciva a darle. Da quel momento ci siamo incontrati più volte, il racconto del Tg3 ha attivato una catena di solidarietà che ha messo insieme la comunità di Sant’Egidio con i suoi corridoi umanitari, la Fondazione Luchetta con la casa famiglia di Trieste e il prof. Scarpa esperto di malattie rare dell’ospedale di Udine.
La storia di Amir ha raccolto grande attenzione (per una volta si parla di migranti in positivo e senza politicizzazione) da parte dei media, ecco uno dei pezzi che più approfondisce la vicenda.