In questo fine settimana nei ristoranti italiani si montavano pannelli in plexiglas, nei negozi di abbigliamento procedevano sanificatori “armati” di gas inerti, agli ingressi si installavano dispenser di gel lavamani e dentro di noi saliva l’emozione (e la paura) di capire come sarà questa “nuova normalità”.
Intanto a Kabul dopo mesi e mesi di lotte intestine si chiudeva l’accordo tra Abdullah e Ghani che potrebbe rimettere sui binari giusti le trattative per la pace afghana.
A questo punto, voi starete pensando: Ma davvero? Con tutti i problemi che abbiamo ci dobbiamo occupare di Kabul? Datemi qualche riga d’attenzione e vi tolgo il dubbio.
In questi ultimi mesi, il coronavirus ha cancellato notizie e reso ancora più invisibili certe crisi dimenticate. Del resto si è trattato e si tratta, di un onda “tellurica” che ci colpisce da vicino e sovverte quell’idea di vita comoda e sicura, su cui si fonda la società occidentale dal dopoguerra. Non sto dicendo che sia stato sbagliato occuparsi di coronavirus, l’ho fatto anch’io da giornalista che pur si occupa stabilmente di esteri. Sto provando a mettere in evidenza un aspetto della crisi che pare passato in secondo piano, coperto dal dibattito sulla ripartenza da cui dipende il reddito di centinaia di migliaia di famiglie che, proprio per questo, non va confinato al “micro”.
Per l’ennesima volta ma in maniera più forte che mai (nel recente passato l’avevano già fatto l’11 settembre e la guerra in Siria) la crisi globale scatenata dal covid ci ricorda quanto sia importante occuparsi delle cose che accadono lontano da noi.
In un mondo globalizzato esistono degli epicentri (l’Afghanistan è uno di questi) da cui nascono – senza preavviso – onde telluriche destinate a farsi sentire lontano, non più solo dei “blocchi” (Washington, Mosca, Pechino) intesi come sorgenti di decisioni e di potere che viene deliberatamente scaricato sulla bilancia degli equilibri mondiali.
Dobbiamo respingere l’idea (su cui si è basata, per esempio, molta della trasversale -propaganda di ispirazione localista-sovranista) secondo cui per prenderci cura bene di quello che accade da noi, dobbiamo dimenticarci di quello che accade lontano da noi.
La principale lezione del coronavirus è proprio questa: se avessimo osservato meglio il caso Cina, avremmo potuto reagire prima e meglio. Se gli altri Paesi europei e occidentali (dal Regno Unito alla Spagna passando per gli Stati Uniti) avessero guardato con attenzione al caso italiano, avrebbero parato meglio il colpo. Se avessimo guardato, raccontato, analizzato il caso Ebola nel 2014/15 in Africa occidentale, avremmo parato meglio il colpo. Se ci fossimo occupati meglio di deforestazione, modifica degli habitat naturali, urbanizzazione selvaggia e via dicendo (in una parola della nostra patria Terra), avremmo parato meglio il colpo.
La crisi coronavirus non è finita, è stata ed è tragica ma consideriamola anche come una grande opportunità. Certo una di quelle che, ovviamente, non vorresti mai ma intanto che ce l’abbiamo…
Questo è il momento per cambiare, su tanti fronti, per essere più pronti e più giusti.
Sul piano specifico dell’informazione dovremmo evitare di richiuderci su noi stessi, riaprendoci sempre più al racconto del mondo anche perchè la lezione del ristoratore di una lontana città cinese può essere utile alla riapertura delle enoteche italiane. Guardare al mondo è utile, oltre che necessario.