Nei giorni scorsi, con Enrico Farro dell’Associazione Italiana Filmaker, ho tenuto un breve seminario sul mobile journalism al 40mo convegno nazionale della Caritas, ad Abano Terme.
Le prospettive per il mojo sono entusiasmanti quando si tratta di sociale, insomma di dare voce a chi non ha voce perché è uno strumento leggero, semplice da usare e dotato di immediatezza nella distribuzione dei contenuti.
Se questa è una bella sensazione per chi divulga il mojo, resta però un rammarico: constatare quante storie i mainstream media non raccontino più, ormai concentrati su quel minimo indispensabile che li rende tutti – o quasi – delle fotocopie l’uno dell’altro.
Non c’è da esserne contenti anche se va molto di moda attaccare i mainstream media (che poi, per me, significa sostanzialmente il fatto che detengono – ancora – il grosso dell’audience).
Ecco “ancora” o meglio “per ora”: le cose stanno infatti già cambiando con una frantumazione dei numeri (le “teste” sono sempre le stesse ma il moltiplicarsi dell’offerta le divide spesso aggregandole secondo percentuali minime su questo o quel canale/testata/sito e via dicendo).
Il panorama del nuovo, salvo alcune eccezioni, produce però soprattutto figure ibride quasi sempre connotate commercialmente (pubblicità camuffate da finte recensioni o esibizioni di “look” alla moda, ben finanziate) e vincenti nel loro “costo per contatto” (nuova ossessione del marketing a cui ormai sembra interessare solo il numero dei follower più che la qualità di chi produce contenuti).
In generale, questa perdita dei “grandi” (ndr ecco perché preferisco usare “mainstream media”…il sinonimo grande può essere confuso con un giudizio) è una sconfitta per tutti. Alla fine fa perdere credibilità a tutto il giornalismo, finendo con lo spingere il pubblico verso la “verità” di cospirazionisti e spacciatori di fake news su youtube e social di sorta (a proposito, per capire meglio di cosa parlo date un occhio a questo pezzo della Bbc).
Cosa fare? Purtroppo la palla resta nel campo dei cosiddetti “grandi” che non sembrano però voler cambiare (lo capiranno quando sarà troppo tardi?), noi non possiamo che continuare a diffondere il verbo del mojo per dare voce a chi non a voce ma – questo il punto della mia riflessione – un giornalismo senza più radici nella società è un male per tutti.
A proposito, vengo da percorsi culturalmente diversi e non faccio parte del movimento della Caritas ma sentendo parlare di pace e di difesa degli ultimi, vedendo persone ancora interessate a guardarsi intorno (temi e atteggiamenti ormai scomparsi dall’orizzonte della malandata politica italiana) ad Abano Terme mi sono sentito a casa.
Prossimo appuntamento con il mojo sociale: 20 maggio a Benevento nell’ambito del festival “Porti di Terra” organizzato sempre dalla Caritas (a breve i dettagli, qui).