La recensione/commento ad “Afghanistan Missione Incompiuta” del collega della redazione Esteri del Tg2, Filippo Golia, crowdfunder della prima ora – per gentile concessione dell’autore.
Mentre leggevo “Afghanistan missione incompiuta” ho iniziato a segnare alcuni passaggi con un foglietto colorato. Alla fine il libro assomigliava a uno di quei fili di bandierine, con una preghiera ciascuna, che i buddisti stendono in Bhutan e Tibet.
“Il mondo è un vaso spezzato. Il sacrificante tenta di ricomporlo, lentamente, pezzo per pezzo. Ma certe parti sono sbriciolate. E, anche quando il vaso è ricomposto, lo solcano molte ferite. C’è chi dice lo rendano più bello.”
Come in questo passo dei Veda, che furono concepiti proprio al di là di quella catena dell’Hindu Kush che in “Afghanistan missione incompiuta” rappresenta una frontiera costante – da attraversare, attraversata, insuperabile – il libro è un tentativo di rimettere insieme tutti i pezzi di un puzzle impossibile.
L’ossatura è data dal resoconto di fatti vissuti in prima persona come inviato a più riprese in Afghanistan, spesso come giornalista embed, con le truppe statunitensi e italiane. Ma resoconto nella linea di una tradizione, per lo più britannica, di giornalisti e viaggiatori, che con il viaggio, il luogo, gli eventi, intraprendono una lotta per conquistarne l’anima.
Nemmeno per un momento Piro si sogna di vivere come un limite il fatto di trovarsi a raccontare gli eventi dal punto di vista dei soldati occidentali. A garantire l’obiettività del resoconto non è tanto l’etica del giornalista quanto l’assunto alla base di tutto il libro: l’ultima guerra in Afghanistan è una guerra assurda, impossibile, dagli esiti paradossali, come quelle che l’hanno preceduta. L’Afghanistan stesso è patria d’elezione dell’assurdo e del paradosso, ben rappresentati dal gioco nazionale del buzkashi, in cui i cavalieri inseguono una pelle di capra: un tutti contro tutti senza regole, che sembra fatto apposta per allibire un occidentale.
La guerra osservata da questo crinale non ha più aggressori e aggrediti ma solo vittime da guardare con la stessa pietà. Anche se il giornalista non fa sconti a nessuno – meno che mai agli italiani – e in quell’assurdo fruga fino allo sfinimento, per scovare cause, errori, ipocrisie, falsità, piani falliti, progetti accantonati, sprechi e follie. Così può ben scrivere, ricordando il lavoro del fotografo Tim Hetherington, “il giornalismo embed – demonizzato nell’Italia dei dogmi ideologici – può essere comunque buon giornalismo se conserva le giuste distanze e le regole base del “mestiere”.
Il resoconto dà al libro solo lo scheletro, su cui si inserisce una quantità impressionane di aneddoti, divagazioni, ricerche, excursus storici, citazioni di altri reportage o articoli o racconti di viaggio. Piro è consapevole di star maneggiando un Cubo di Rubik, che mentre fai una faccia un’altra si disfa: per questo non tenta un percorso unico: né sceglie un unico ingresso né cerca un’unica uscita dal dilemma Afghanistan; ma prova tutte le porte del labirinto, in tutte le direzioni si avventura e in ogni direzione è disponibile a valutare un’uscita.
La drammatica ritirata inglese del 1842 da Kabul lungo la Jalalabad Road, un unico superstite in una colonna composta da oltre 16mila persone, viene raccontata due volte nella prima parte del volume, una intrecciandola al ricordo di un viaggio in macchina dell’autore, camuffato da afghano, da kabul a Sorobi; un’altra entrando dalla porta del National Army Museum di Chelsea a Londra, che all’Afghanistan del Grande gioco dedica una mostra. I due racconti si riprendono e completano a vicenda. La storia dell’invasione russa dell’Afghanistan torna decine di volte in tutto il libro, come esempio, modello, apologo, miniera di esperienze e storie. E così veniamo a sapere delle brigate musulmane dell’armata rossa, del museo della Jihad antisovietica ad Herat e dell’ex soldato russo convertito che ci lavora. Così seguiamo la fuga del presidente fantoccio dell’Afghanistan sovietico Najibullah, detto a Mosca Najib, fin sulla porta delle Nazioni Unite a Kabul.
L’ombra di Alessandro Magno, che attraversò con il suo esercito queste terre 2340 anni fa, è pronta ad affacciarsi dietro ogni pagina, e accompagna l’autore, alla fine di un viaggio mozzafiato, fin dentro i ruderi di Alessandria Oxiana, il punto di massima penetrazione a oriente del condottiero macedone.
C’è una tensione etica a denunciare tutti gli errori fatti dalla coalizione occidentale, a fare chiarezza e a spiegare cosa era, cosa potrebbe essere e cosa è diventato l’Afghanistan. Ma c’è anche un movimento diverso che porta a voler rivivere tutto quello che è accaduto, ad entrare in ogni particolare, a restituire ogni arma usata, ogni proiettile sparato, con il modello, il calibro, la provenienza, il costo. Fino a veri e propri elenchi, scrupolosi per dovere di testimonianza, come quello in cui si numerano gli episodi di soldati dell’esercito afghano che hanno sparato sui propri alleati della coalizione, nel capitolo Sohna ba shohna (spalla a spalla).
E, contrariamente a quanto si crede, è proprio quando si arriva agli elenchi che il passaggio verso la letteratura è prossimo, come sa qualsiasi appassionato di epica.
Del resto, da quando la realtà si racconta in continuo da sola, giornalismo e letteratura si trovano di fronte alla stessa identica sfida: fornire un racconto del mondo più interessante e completo di quello in diretta, in rete, onnipresente.
Ne nascono, da entrambe le parti, cose che non sono solo romanzi né solo racconti né solo reportage giornalistici ma vengono chiamate oggetti narrativi, in cui è fondamentale, per sfidare la complessità del reale, il genio del montaggio. E questo è il caso di “Afghanistan missione impossibile”.
Che si avvale anche di una scrittura capace di veri aforismi: “La guerra sembra monotona come quei macelli industriali dove entrano i manzi ed escono ritmicamente le scatolette”; di colorismi da pittore: “La luce dorata si stava ormai ritirando all’orizzonte come un fiotto d’acqua azzurra che colava verso il fondo di un imbuto, carico di tinte bluastre” e di metafore lucide e allucinate: “[L’Afghanistan è] una scatola foderata di specchi all’interno della quale ritrovarsi ad aprire quelle stesse piaghe che si stava tentando di curare”.
Quando l’elenco non è materialmente possibile, come per le vittime civili della guerra, un caso prende il posto di tutti. La straziante storia di khorshid, una bambina uccisa insieme ad altri minori come lei, in una strada di Kabul, vicino alla base americana, come al solito non ha un solo ingresso. Vi si arriva seguendo un terrorista confuso in motorino che sbaglia strada e bersaglio; entrando in un edificio dove un visionario arrivato dall’Australia ha trapiantato lo skateboard per i piccoli afghani e dove l’autore fa conoscenza con la futura vittima; passando da una redazione romana di Saxa Rubra, in una pigra domenica, dove arrivano le immagini dell’attentato , che come al solito sembrano lasciare tutti indifferenti. E infine guardando la foto di Khorshid, fatta da Nico Piro, il suo sorriso misurato, che ha i giorni contati.
Fino al centro del labirinto, per riportare indietro almeno quello, un brandello di vita di una delle vittime, con quel sorriso così titubante, come solo i bambini sanno farne.
Nel libro c’è una discreta quantità di refusi. Io ho letto una primissima versione dedicata a chi ha partecipato al crowdfunding, che ne ha permesso la pubblicazione. Immagino che quello arrivato nelle librerie sia già diverso. Ma nonostante gli elogi al coraggio di un editore, Lantana, che ha scelto di puntare sul tema e di imboccare la strada innovativa del lancio in rete, io credo che un testo come questo avrebbe meritato l’onore della copertina rigida, di un editore affermato e di un sano lavoro di editing, che permettesse anche di regolare qualche ripetizione non funzionale e probabilmente non voluta.
Dopo la lettura della prima parte di “Afghanistan missione impossibile”, ho dovuto fare una pausa. Come i diabetici di insulina, io ho bisogno di leggere cose che non abbiano nulla a che vedere con l’attualità, con il nostro presente assoluto. Mi sono quindi distratto con un libro che racconta storie di scrittori: “Hotel a zero stelle” di Tommaso Pincio, in cui sfilano tipi come Graham Greene, Philip K. Dick e David Forster Wallace.
Ma l’Afghanistan, così presente fino a poche ore prima, non poteva far altro che tracimare anche nel nuovo libro. Tommaso Pincio racconta anche di un suo amico, l’artista concettuale Alighiero e Boetti. Inizia così:
“Nel 1970, un anno dopo il ricalco del foglio a quadretti, Alighiero e Boetti cominciò a viaggiare…” Lo segue fino a Kabul, dove l’artista aprì un albergo, che si chiamava One Hotel. “Ma è certo – continua Pincio – che in Afghanistan Boetti trovò un modo per risolvere quel che per lui era la crisi dell’occidente, l’opprimente fede nell’individuo in quanto creatore ispirato… L’Afghanistan rappresentava la dimensione opposta. Un paese privo di cose create”.
Pincio riporta le parole dell’amico: “Le case afgane sono vuote: non ci sono mobili e quindi nemmeno gli oggetti che di solito si poggiano sopra i mobili. Ci sono soltanto i tappeti e i materassi sui quali la gente si distende, beve, fuma e mangia. Mi piace anche il fatto che gli afgani indossino gli stessi abiti giorno e notte. Nulla viene aggiunto al paesaggio. Le rocce vengono spostate e usate per costruire case cubiche. La determinazione con cui gli afgani si oppongono alla nostra idea di civiltà mi ha sempre stupefatto”.
“Russi prima e americani poi – conclude Pincio – avrebbero dovuto chiedere consiglio ad Alighiero prima di muovere guerra a quel paese; si sarebbero risparmiati un mucchio di grattacapi”.
Che poi è proprio la morale del libro di Nico Piro.
Quando lo ho ripreso in mano, lo ho fatto anche con la curiosità di sapere se in quelle 700 pagine, in cui sembra esserci tutto, ci fosse la storia del One Hotel.
Ed eccola, immancabilmente, a pagina 407: “Quella era la Kabul che poteva tornare a essere Kabul, la città degli anni ’70 dove ti infilavi in un piccolo albergo, il “Kabul 1” (“Kabul one” o “yek” a secondo se vogliate leggerlo in inglese o in dharì) e potevi trovarci Alighiero Boetti. Erano delle tessitrici afghane ad annodare gli arazzi dell’artista italiano, oggi esposti nei musei di tutto il mondo, anche se in pochi lo sanno o se ne ricordano”
Chi ha letto fino a qui (chi, quindi, mi auguro, ha letto o leggerà fino in fondo “Afghanistan missione incompiuta”) forse avrà notato perfino che nel libro di Pincio l’artista viene chiamato Alighiero e Boetti. In quello di Piro la “e” manca.
La congiunzione fu inserita dall’artista all’interno del proprio nome, negli anni 70, per mettere in crisi il concetto stesso di identità.
Volontariamente o involontariamente Nico Piro l’ha omessa.
Ecco, quella “e” mi sembra l’unica cosa che manca nel suo libro. Tutto il resto c’è.
Di questo, di tanto sforzo, c’è da essergli sinceramente grati.
E non ci sarebbe bisogno di nessuna gratitudine particolare se il sistema editoriale e il mercato dei libri italiani fossero in grado di ricevere in modo adeguato un testo che, per ora, è quello definitivo sulla nostra (nostra in quanto occidentali, prima che italiani) guerra in Afghanistan.