Numero delle vittime a parte, il golpe turco è stato talmente “da operetta” che verrebbe da pensare alla messinscena. Un “falso” (o quasi) ad uso e consumo di quell’Erdogan che ha viaggiato in cielo per qualche ora su un aereo civile (alias senza “contromisure” di difesa) e che poteva essere facilmente abbattuto anche da un solo jet “ribelle”, di quell’Erdogan che nei giorni precedenti al “coup” aveva fatto abilmente la “pace” con Israele, Russia e Siria ovvero con tutti i vicini (o vicini contingenti militari) che avrebbero potuto approfittare anche di un golpe da operette per farne una cosa seria. La tesi della messinscena viene del resto data per probabile anche dal grande Antonio Ferrari, sul Corriere della Sera.
A parte le interpretazioni sulla vicenda, sono i suoi effetti quanto conta di più ora.
E’ ormai chiaro che la forza laica del Paese, i militari da sempre garanzia dello stato moderno di Ataturk, sono ormai sotto controllo del neo-sultano. E’ ormai chiaro che Erdogan vuole sempre più candidarsi ad essere la testa di ponte di un alleanza sunnita verso l’Europa, nella Nato e nel mondo arabo usando come colonna sonora – popolare – una sorta di revanscismo ottomano. E’ ormai chiaro che le elité urbane del Paese non riescono in alcun modo a controbilanciare le masse rurali, la cui vita è cambiata in meglio negli anni di Erdogan (lo si capiva anche dai dati elettorali del resto). Insomma un cambio di regime non è in vista a breve e se accadrà potrebbe essere solo per via di una massiccia (quanto prevedibile) crisi economica, magari post-bolla immobiliare.
Guardando all’oggi, invece, il golpe ha consentito e sta consentendo ad Erdogan di condurre su vasta scala (e con una giustificazione “morale”, la sicurezza nazionale) l’operazione di bonifica della società turca già cominciata con gli attacchi dittatoriali alla stampa e oggi estesi a polizia, magistratura e ad altri apparati statali come in una purga staliniana (considerando il numero imponente degli arresti e le dimensioni risibili del golpe).
La Turchia con la sua deriva dittatoriale e religiosa, con il suo intervento nella guerra in Siria, con i denunciati legami di certi suoi apparati con l’Isis, con il suo ruolo di miglior alleato dell’Occidente in Oriente, con il prezzo di sangue che sta pagando come fosse un “ritorno di fiamma” proprio per via del suo ruolo oscuro nel conflitto siriano, ricorda molto da vicino il Pakistan (l’avevo scritto tempo addietro).
Le conclusioni da tirare sono quindi facili, quanto sarà difficile realizzarle. L’Occidente deve rompere i suoi indugi e assumere una posizione chiara con questa Turchia, a prescindere dalle convenienze (come il vergognoso accordo sui rimpatri dei rifugiati) altrimenti come con il Pakistan avremo favori in cambio di grossi problemi oltre a macchiarci della tolleranza verso quello che è ormai un regime dove, in questi giorni, si pianifica persino l’introduzione della pena di morte per reati commessi prima dell’entrata in vigore della pena stessa (un orrore giuridico).
Nel farlo però dobbiamo partire dal grosso errore commesso dall’Europa dei burocrati priva di un’autonoma politica estera e militare: quello di aver rinviato in un continuo stillicidio di osservazioni e critiche per anni l’ingresso in Europa della Turchia quando era ancora possibile portarla da questo lato del Bosforo mentre oggi si è spostata, temo per un lungo periodo, sull’altro versante dello stretto.
E oggi ha tante armi in mano per fare la voce grossa con l’altro lato del Bosforo, a cominciare da quella che qualcuno ha definito la “bomba umana”, i milioni di profughi che da anni ospita sul suo territorio.