Sarei tentato di chiamarle venti ore di battaglia, in realtà parliamo di venti ore di terrore.
Con l’attacco a Kabul di martedì, il più lungo e il più articolato di questi dieci anni di guerra, i talebani (o piú probabilmente gli uomini di Haqqani, ma cambia poco) sono riusciti a portare ad una nuova frontiera il livello di paura nella quale gli afghani vivono immersi ormai da anni.
Perchè a guardare bene, il bilancio dell’attacco non ha nulla di clamoroso: pochissimi i danni materiali, undici le vittime. Sia ben inteso, anche solo un morto è troppo ma se si guarda agli attacchi a cui l’Afghanistan è abituato, spesso il bilancio degli attacchi (che per giunta ricevono un’attenzione mediatica minima) è ben maggiore.
Eppure i talebani sono riusciti a riconquistare le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, dopo mesi di “rinnovata” disattenzione verso l’Afghanistan. Appunto perchè hanno fatto leva sul terrore, su un nuovo livello di terrore, ed hanno dimostrato che per shockare un’intera città, paralizzare il suo quartiere più sorvegliato, tenere una capitale in scacco per quasi un giorno e ridicolizzando le forze di sicurezza locali possono bastare solo una decina di militanti votati al suicidio. Un’equazione vincente nell ‘algebra del terrore.
I fatti sembrano semplici nel loro essere clamorosi. I terroristi arrivano in città, burqa indosso. La polizia non ha agenti donna per perquisire “sospetti di sesso femminile”. E inoltre la rete di sostegno ai ribelli dentro la polizia e l’esercito è ampia.
Prendono posizione in un alto palazzo in costruzione, alto undici piani, come sta accadendo sempre piú in una città ormai malata della febbre del mattone. Salgono agli ultimi piani (vedi le immagini della Bbc) dove probabilmente avevano già nascosto armi e munizioni a volontà (o per loro l’avevano fatto dei fiancheggiatori). Dal lí in alto il campo è aperto, la linea di tiro sgombra, si vede chiaramente la fortificata ambasciata americana e la cittadella murata del quartiere generale Isaf. Comincia la pioggia di fuoco soprattutto con razzi a spalla. In contemporanea partono gli attacchi diversivi, almeno tre kamikaze (forse quattro) sono in azione in città. Uno si fa esplodere presso la sede dell’Anbp, la polizia di frontiera, gli altri sarebbero stati bloccati dalla polizia, uno di certo all’aeroporto. Piovono razzi anche nel resto della città, ma (mi sembra di aver capito) sparati dalle colline vicine alla capitale non da quel palazzo in costruzione.
In cielo si vedono anche gli elicotteri dell’aviazione afghana oltre che quelli Nato ma, come durante l’assalto all’hotel intercontinental del giugno scorso, stanare cinque talebani assediati da forze almeno cinquanta volte superiori in termini numerici sembra impossibile. Ci vogliono ore, ben venti. L’assedio finisce all’alba del giorno dopo
Certo non è facile agire in un contesto del genere. Dover fare i conti con chi si è barricato in alto, al coperto (quindi anche al riparo dagli elicotteri) con la possibilitá di controllare e forse minare l’unica scala d’accesso, è uno degli incubi delle forze di sicurezza. Non a caso lo Swat team di Los Angeles, il primo della storia, venne creato proprio dopo che un cecchino folle si era barricato su una torre dell’orologio. E le forze speciali afghane non sembrano essere state sin’ora addestrate a fare i conti con questi scenari, del resto sin’ora a Kabul i palazzi cosí alti si contavano sulle dita di una mano.
Al di là delle spiegazioni tecniche, è questa una parte importantissima del successo talebano di martedì. Hanno dimostrato agli afghani che il governo non è capace di difenderli cosí come gli occidentali non riescono a difendere le loro “case” super-protette di Kabul, si tratti di ambasciate o del quartier generale dell’Isaf. Hanno dimostrato che cinque “martiri” possono mandare in crisi centinaia di “infedeli” o di “amici degli infedeli”, per usare le parole della loro propaganda. Un messaggio sicuramente più forte e comprensibile dagli afghani di quanto possano esserlo le piccate parole di condanna di Rasmussen, il segretario generale della Nato, o quelle altrettando dure del presidente Karzai.
Il nuovo ambasciatore americano a Kabul ha letteralmente ragione, quando minimizza l’azione talebana (un po’ di razzi sparati da un chilometro di distanza) ma il punto non sono nè i danni, nè le vittime, nè l’effettiva portata dell’attacco. Il punto sta nel fatto che i talebani hanno segnato e vinto la partita, perchè sono riusciti a far percepire la loro forza e a terrorizzare un’intera città. E il fatto che ci siano riusciti solo con un po’ di razzi sparati da un chilometro di distanza peggiora le cose per le forze di sicurezza locali, non le semplifica.
La guerra continua: di mezzo ci sono sempre loro, sempre più vulnerabili, i civili afghani.
[…] precedenti”, questo attacco è una fotocopia (seppur più elaborata) di quello che a settembre ha tenuto in scacco il quartiere più sorvegliato della città. E’ proprio questo avere “precedenti” che rende più tragico e più sinistro […]