Vorrei essere un afghano. No, non è la mia solita forma di identificazione con chi vive il dramma di quel Paese, nè il riflesso condizionato di chi ha frequentato abbastanza quei luoghi. Nient’affatto.
Io, questa volta al contrario del solito, non vorrei essere un afghano che guidando la sua Toyota bianca (il veicolo piú segnalato come possibile autobomba e il veicolo più diffuso nel Paese) si trova di fronte un convoglio militare Isaf e rischia di morire, senza colpa. Non vorrei essere un afghano che deve pagare il pizzo ai talebani per transitare su una strada e portare le sue merci al bazar altrimenti lo sgozzano. Non vorrei essere la donna incinta che ad ogni parto (magari il quinto o il sesto) affronta i pericoli che forse un occidentale non affronta in tutta la sua vita.
Questa volta vorrei essere uno di quegli afghani che lavora per il suo popolo. Uno di quelli che sta provando a trattare la pace con i talebani. Uno di quelli che sta costruendo la democrazia afghana, che sta barcamenandosi tra pressioni americane, pakistane, indiane e di tutti quelli che vogliono mettere le mani nel piatto afghano.
Facciamo un esempio. Vorrei essere Omar Daudzai, ex-ambasciatore a Teheran e capo di gabinetto del presidente Karzai, un ruolo chiave che gli costa non pochi rischi e fatiche, come tornare da una visita ufficiale a Teheran con una busta piena di mazzette di euro o aiutare i guardiani della rivoluzione (un corpo speciale iraniano) ad insediarsi a Kabul dietro un’insegna commerciale, ritrovandosi poi a litigare con l’Nds, ovvero i servizi segreti del proprio governo.
Rischii come finire sul NY Times che, ben imboccato dal solito ‘western diplomat/source familiar with the issue’ ha sputtanato (scusatemi non ho trovato termine piú efficace) il povero Daudzai; segno che nell’amministrazione Usa il tempo degli approcci distensivi con Teheran sono finiti o almeno sono finiti in minoranza. Segno che, dopo averci girato intorno per anni (dai tempi di Bush Secondo) alla fine l’hanno trovato qualche elemento solido di coinvolgimento iraniano; tanto solido da finire sulla stampa.
Meno male che, a fronte dei rischi, il povero Daudzai, se le cose dovessero andare male, potrà rifarsi una vita altrove. Il “top Karzai’s aide” possiede almeno sei case tra la British Columbia e Dubai. Per fortuna, a Dubai non si sentirà solo, perchè lì hanno comprato case molti maggiorenti del regime afghano, incluso il discusso fratello di Karzai. Ne hanno comprate tante da mettere in crisi (colpa della bolla immobiliare!) la più importante banca privata del Paese, la Kabul Bank, poche settimane fa salvata dal Governo. Questi altri le case, sicuramente, non le hanno comprate con i soldi degli iraniani ma con quelli degli aiuti internazionali (ognuno dei ministri in carica è indagato per corruzione) e con le mazzette.
Vorrei essere un afghano, ma non uno di quelli che non conta nulla e non cambierà la storia. Uno di quelli che se non muore assieme ad un militare occidentale e/o con almeno una decina di connazionali non fa notizia; i morti tanto al chilo, anzi al quintale.
Vorrei essere un afghano di quelli al governo con Karzai che aiutano il proprio popolo. Vorrei essere uno di loro, se solo ne riuscissi a trovare uno…
In quella che è ormai una guerra di nervi con l’occidente, Karzai risponde cosi’ alla rivelazione del NY Times (leggi al chiaro segnale lanciatogli da Holbroke e da chi lo sostiene nel panorama dell’Amministrazione Usa)
http://www.bbc.co.uk/news/world-south-asia-11618969
Parla cioe’ di legittimi aiuti iraniani a copertura delle spese dell’ufficio del Presidente. Una risposta che lascia molti dubbi sul merito della vicenda e una certezza ovvero che fin quando gli americani proveranno ad applicare la logica occidentale al comportamento di Karzai e non quella (personale) afghana, si troveranno sempre ad afferrare un anguilla…o meglio a provare ad afferrarla