Mentre dovrei scrivere di Petraeus che non considera il 2011 come una data tassativa per il ritiro, del Pakistan che ammette di aver arrestato il mullah Baradar per bloccare il processo di pace e magari anche di tutte le discussioni in corso sull’anti-corruzione via Kerry-Karzai, in realtà non riesco a smettere di pensare ad un episodio che mi è capitato qualche giorno fa: vacanziero ma significativo. Stavo salendo sulla cima lepri, uno dei “duemila” dell’Appennino (2445mt per la precisione), una passeggiata escursionistica sui monti della Laga, a metà tra il divertimento estivo e l’allenamento. A tratti la salita mi ha ricordato la provincia di Kunar, con la differenza che lì le montagne non salgono dolcemente ma si impennano, come una moto su una ruota sola, e arrivano a tre-quattromila metri senza preavviso. In un paio di passaggi, tra l’erba e qualche rada macchia di faggi, ho pensato a quanto è piacevole camminare “fuori-strada” senza dover pensare a strani avvallamenti sul terreno, a macchie umide, a fili o capsule metalliche che spuntano così.
Nel punto più difficile del percorso (o almeno difficile per uno come me che in montagna non c’è nato) mi è venuto da pensare ai talebani che salgo e scendono dalle morene, attraverso il canaloni, saltano da roccia a roccia magari con un mortaio da 60mm e tre colpi al seguito, sparano sulla fob occidentale più vicina e poi scappano evitando la pioggia di fuoco che di lì a breve arriverà in risposta, e a tappeto. Ad un certo punto ho incontrato un signore che allegramente saltellava giù dall’ultimo “scollinamento”, aveva un gilet da caccia ma con le tasche vuote e una busta del supermercato in mano. Era così disinvolto che avrei giurato avesse l’auto parcheggiata dietro la cresta che avevo appena superato. Era andato a fare la spesa, come io e voi facciamo al supermercato sull’auto, lui era salito in cima a prendere funghi e mirtilli; tornava a casa per l’ora di pranzo, nel paese che da qui sembrava solo un puntino nella vallata: casa sua. Abbiamo chiacchierato un po’, mi ha dato qualche indicazione ed è scomparso nel “grande verde”.
Io avevo uno zaino di dieci chili addosso, con il kit di pronto soccorso, almeno cinque litri d’acqua, qualcosa da mangiare ed equipaggiamento vario: l’indispensabile per sopravvivere alla giornata e nel caso qualcosa fosse andato storto. Mi muovevo con i miei bastoncini di carbonio, scarpe da trekking e occhiali polarizzati per difendermi dal sole che a quella quota picchia più del solito. Mi sono sentito come un militare americano che affronta le montagne afghane (in quel caso tra giubbotto balistico, elmetto, arma individuale e munizioni il carico arriva a25/35 chili) e incontra un locale, con i sandali ai piedi, la coperta indosso (il patù nel quale si avvolgerà la notte per dormire e che lo difende dal freddo di giorno), un cappello, un bastone e magari un Ak47 che ha appena buttato tra le rocce alla vista dei militari.
Nella sua parte montuosa come in quella piatta e desertica (60 gradi all’ombra d’estate), l’Afghanistan è il terreno più difficile del mondo, se ci combatti sopra – tradotto in termini militari – è un campo di battaglia tridimensionale. E’ anche il teatro dell’incontro/scontro tra guerrieri nati e cresciuti in quelle terre sulle quali si muovono con naturalezza (i dukhì – fantasmi – come li chiamavano i russi) e soldati occidentali che per affrontare quell’ambiente camminano lenti e appesantiti o si muovono barricati in mezzi ancora più pesanti. Penso alla guerra anglo-afghana, alla ritirata da Kabul, a quel corteo di animali da soma carichi di stoviglie, arredi, vettovagliamenti e capisco che, sul piano logistico per chi arriva a combattere in Afghanistan poco è cambiato (per la cronaca dei 12mila partiti a Jalalabad ne arrivò vivo uno).
Solo l’orizzonte che si spalanca in vista della cima mi toglie il senso di inquietudine, forse di angoscia, che mi era preso silenzioso, come quando provi a risolvere un problema che soluzioni non ne ha.