Una ragazza col velo in testa che cammina veloce, parlando da sola. Piange mentre guarda a terra forse a voler evitare i detriti. Una donna di mezz’età, anche lei col velo in testa, che grida, una borsa pesante in una mano, l’altro braccio stretto da un uomo che l’aiuta a entrare in una casa dalle finestre divelte. Un pick up che porta le insegne della polizia municipale di kabul. È rosso e bianco. Così il sangue della decina di persone che siedono sul suo pianale sembra quasi fare meno orrore. Sono tutti imbrattati di sangue, rosso vivo sugli abiti, rosso scuro – rappreso – sui volti. Una fila di corpi coperti, composta, allineata al centro della carreggiata vicino allo spartitraffico. Altre scene di soldati e di polizia locale che coprono corpi, semi-nascosto si intravede il cadavere di un civile, la sua shawol kamiz coperta di sangue, il ventre al cielo. Ci sono anche inquadrature strette, impietose, dei due caduti italiani più direttamente investiti dall’esplosione.
Sto descrivendo le immagini che l’altro ieri un freelance afghano mi ha fatto recapitare. Negli ultimi giorni, ho messo a soqquadro Kabul alla ricerca di un documento filmato o fotografico che potesse aiutarmi a capire meglio la dinamica dell’attacco agli italiani. Non ho trovato nulla di utile, comprese le immagini che vi sto descrivendo che però sembravano girate prima (rispetto al momento dell’esplosione) e meglio di molte altre viste sui circuiti internazionali.
L’attenzione alle vittime civili, il racconto delle dimensioni della strage, la cruda cronaca della morte ne facevano un vero documento giornalistico. Nonostante ciò non le ho comprate, per vari motivi. Perché non aggiungevano nulla alla comprensione della dinamica dell’attacco, perché perso il loro valore di cronaca e per altre valutazioni pratiche.
Eppure quella visione mi ha scatenato mille riflessioni su fin dove si possa spingere la cronaca. Le ho viste con Craig, il mio cameraman delle dirette all’Ebu di Kabul, un ex-fotografo scozzese convertitosi alla telecamera che però conserva il gusto fotografico per l’immagine. Pur avendo già rimandato indietro il nastro, per il piacere di capire, ne abbiamo parlato a lungo attendendo una diretta notturna, l’ultima dopo 29 ore di diretta satellitare in 5 giorni (fonte l’altro craig, l’ingegnere dell’uplink via satellite all’ebu di Kabul).
Secondo Craig, mostrare quelle immagini nel giorno dei funerali sarebbe servito solo a riaprire una ferita proprio nel momento in cui il paese stava “maturando” il lutto, per giunta senza aggiungere nulla alla cronaca dei fatti. Un argomento di opportunità, convincente, “secco”, il suo.
Ma ne abbiamo continuato a parlare, perchè se l’informazione ha un dovere, quello di pubblicare tutto, che limiti – ci siamo chiesti – può avere questo dovere? Ho pensato alla recente polemica sulle foto dell’attentato pubblicate in Italia da il riformista e da il giornale. Ma il vero dibattito su un tema del genere è, secondo me, quello scatenatosi di recente negli stati uniti per la foto del Marines morente, fatto a pezzi da un rpg nell’hellmand. Famiglia contraria, governo contrario ma l’AP l’ha pubblica lo stesso. Un dibattito che mi sembra ben sintetizzato qui http://lens.blogs.nytimes.com/2009/09/04/behind-13/?scp=4&sq=Nickelsberg&st=cse, nel foto-blog del NY Times.
Tra l’altro di quella foto, proprio nei giorni in cui tuonava Robert Gates, ne ho parlato con Bob Nickelebergr, un grande fotografo di guerra, embed a Kunar con me, lui per conto del NY Times. Bob, a cui la foto del Marines morente non “piaceva”, è stato protagonista di un episodio analogo, per una foto a corredo di uno degli articoli più straordinari mai scritti sulla guerra in Iraq. http://www.nytimes.com/2007/01/29/world/middleeast/29haifa.html?_r=1
Nel mio piccolo, mi è capitato varie volte di confrontarmi con il tema. Ne ricordo due in particolare, entrambe in Afghanistan. Il primo nel 2007 quando dopo un attacco kamikaze con Mario Rossi riprendemmo i resti dell’attentatore suicida, il secondo pochi giorni fa quando con Gianfranco Botta abbiamo ripreso bimbi feriti da un attacco a colpi di mortaio su una base americana.
Non voglio scendere nel filosofico ma c’è un nodo del dibattito che nè io nè Craig siamo riusciti a sciogliere nell’aria pungente della notte di Kabul, appollaiati su una terrazza tra parabole giganti e ogni genere di intereferenza elettromagnetica.
E purtroppo non siamo i soli incapaci di trovare una risposta.
Il nodo è questo: se la guerra è fatta di corpi spappolati, arti scagliati a decine di metri di distanza, vite distrutte, case violate, panico, feriti imbrattati da brandelli di corpi che non gli appartengono, di un soldato che poco prima era un uomo forte e coraggioso e pochi minuti dopo è solo un corpo dove i suoi compagni frugano alla ricerca di un’arteria da suturare. Bene se la guerra è tutto questo – e lo è senza dubbio – perché quando è possibile mostrala nella sua vera essenza un giornalista dovrebbe fermarsi?
Spinti da valori nobili, come il rispetto delle famiglie, la pietà, il non indugiare banalizzando il dolore, non finiamo magari col raccontare una guerra idealizzata? Fatta solo di potenti mezzi che avanzano nel deserto assieme uomini e donne coraggiosi, equipaggiati da guerrieri? Del resto che il dibattito sia complesso
Probabilmente la risposta (provvisoria e precaria) sta nella prassi, sta nel cercare di volta in volta un punto di mediazione tra le due esigenze ma è
Penso che le “vere” immagini di una guerra dovrebbero attraversare lo sguardo e il nostro pensiero e solo così, si cancellerebbe la demagogia e il populismo confuso e pretenzioso con cui si confondono le menti dei comuni cittadini ignari e profusi dalle retoriche di chi, per motivi che non hanno nulla a che fare con l’umanitarismo , giustificano una guerra.
salam caro nico… sono bahar una giornalista iraniana. ho visto i tuoi rapporti da tv italia e molto contento che tu sei in afghanistan, paese vicino di Iran,,, sai che mia lingua e` persiano come i popoli afghani… vorrei invitarti a Iran. ho letto i tuoi articoli. sono 25 hanni e scrivo per giornale da 8 anni fa. ho studiato la lingua italiana in universita e traducco articoli italiani per giornale. io molto amo la cultura italiana ed anche la lingua italiana. molto contento di conoscerti. mi pice di parlare con te, molto . poi accettare che noi parliamo, perfavore caro. la mia emaeil: [email protected]….. tu poi scrivere il tuo mail e numero, molto contento di telefonare con te……
spero che tu stai bene sempre.
arrivederci in iran
bahar