L’avvio di trattative senza pre-condizioni, l’apertura di un ufficio politico a Kabul (quello in Qatar ma è ormai un “relitto” di precedenti tentativi d’accordo), l’emissione di passaporti, il rilascio di prigionieri.
L’offerta del presidente Ghanì, arrivata nei giorni scorsi durante la conferenza di Kabul, è stata tanto inattesa quanto non rifiutabile, se (“piccolo” dettaglio) non fosse rivolta ai talebani.
Gli studenti coranici (anche se ormai l’età degli scolari non ce l’hanno più) non riconoscono il governo di Kabul, che considerano un burattino degli americani, quindi vogliono parlare direttamente con Washington. L’avevano detto chiaramente nella lettera al popolo americano diffusa a metà febbraio poco prima della conferenza di Kabul.
Inoltre i talebani sono in una posizione relativamente comoda (per essere una fazione in guerra): hanno basi sicure in Pakistan e controllano aree del Paese in cui organizzano il potere e amministrano la vita quotidiana – mentre l’ISIS è sotto attacco di americani e truppe afghane – inoltre sembrano ormai abituati a combattere senza dare segni di cedimento. Del resto l’odio e il desiderio di vendetta sono l’equivalente della fusione fredda, in guerra si autoalimentano con un minimo dispendio di energia.
Il governo afghano si è sentito forte della scelta agostana di Trump di continuare il conflitto, nulla è cambiato in termini di rapporto tra governo e cittadini (che è il vero anello mancante, l’unico che potrebbe garantire la vittoria dell’inquilino dell’ARG, il palazzo presidenziale).
La soluzione armata si è dimostrata chiaramente impossibile, la guerra (almeno il capitolo occidentale del conflitto afghano) va avanti a più di 16 anni ed è allo stallo. L’anno scorso nel Paese sono morti circa 10mila civili, due terzi dei quali in attentati anti-governativi.
La mossa di Trump di rafforzare la missione americana nel Paese (con un massiccio aumento dei bombardamenti da 1337 del 2016 a 4,361 del 2017, e l’aumento delle truppe da 11 a 14mila) ha avuto come effetto l’intensificarsi degli attacchi a Kabul, che è diventata teatro tattico della risposta terrorista.
E’ l’abc delle quelle asimmetriche: se non puoi rispondere direttamente a chi ha una schiacciante superiorità militare colpisci nel mucchio, con il terrore e con un tutto sommato “economico” kamikaze (circa 2000 dollari da pagare alla famiglia del martire, convinto o costretto che sia). Economico ovviamente per i talebani non per i civili afghani, fatti a pezzi, in una striscia di sangue senza fine.
L’unica convenienza della pace per i talebani potrebbe essere quella di sottrarsi ad un sanguinoso conflitto con l’ISIS che pare militarmente superiore in zone come Nangharar e di fare pulizia di alleati scomodi come i guerriglieri uiguri e tagiki che si sono insediati nel nord-est del Paese.
Insomma, nonostante l’offerta di Ghani, lo stallo continua a regnare sovrano. Lo studioso Barnet Rubin (in una lettera ai talebani in risposta alla loro missiva agli americani) vede una strada alternativa: il ritiro delle truppe americane per consentire agli afghani di vedersela tra di loro (mettiamola così) anche se allo stesso tempo invita i talebani a parlare anche con Kabul, rinunciando alla richiesta di parlare solo con Washington; nel farlo ricorda tutti gli errori commessi dagli Usa nella ricerca della pace negli ultimi 17 anni.
Ciò significherebbe per l’America, però, perdere le basi strategiche nel Paese e i diritti di sfruttamento delle sue risorse minerarie mentre il governo di Kabul potrebbe collassare nel giro di 12/24 mesi aprendo l’ennesimo scenario da resa dei conti. Nella loro lettera aperta al popolo americano, i talebani tra l’altro sembrano assumere una serie di impegni nel rispetto dei diritti civili, compresi quelli dele donne, quasi a descrivere un loro emirato “illuminato” o forse a dirsi pronti a trattare su punti che sono all’occidente particolarmente cari (e salva-faccia).
Non a caso Rubin sottolinea come il ritiro delle truppe straniere dovrebbe avvenire solo dopo l’accordo tra afghani è raggiunto e consolidato, il dopo-Najibullah (capo di Stato filo-sovietico) è un monito tremendo: il collasso dell’apparato statale afghano è un prezzo che continuiamo a pagare ancora oggi.
Tra l’altro, a proposito di Mosca: i contatti avviati dai russi con i talebani nel recente passato, la preoccupazione russa per l’alluvione di droga che arriva nel Paese e per l’insorgenza islamista in certe sue aree, se si sommano al minor attivismo diplomatico americano dell’era Trump, potrebbero dare a Putin un ruolo in Afghanistan quando meno ce lo si aspetta.
Straordinario l’incipit di Rubin che, nella sua lettera, si presenta come qualcuno che da 35 anni sta provando a comprendere le realtà afghane. Non solo un atto di umiltà ma l’ammissione di quanto difficile sia capire l’Afghanistan, quella che troppi militari autori di piani di battaglia sono invece convinti di aver compreso fino in fondo.