L’Occidente, Italia compresa, è in guerra da poco dopo l’11 settembre di tre lustri addietro. In questi anni siamo stati tutti vittima del “grande imbroglio” per cui c’era stata una guerra lampo (in Afghanistan e in Iraq) e a noi europei toccava la missione umanitaria. Il “grande imbroglio” ci ha consentito di continuare a fare l’aperitivo e dannarci in fila per avere l’ultimo smartphone ma ha fatto danni incalcolabili. In primo luogo ai nostri militari mandati a combattere una guerra senza poterla chiamare col suo nome. Poi a tutti noi che non abbiamo capito come ad ogni azione c’è sempre una reazione, che ci siamo disinteressati di fatti lontani che tanto poi “si ammazzano tra di loro” come si diceva una volta in certe osterie del Nord guardando le immagini in tv dei morti ammazzati in Sicilia, mentre gli stessi mandanti di quelle stragi si compravano senza clamore quelle stesse osterie, il terreno dove sorgevano e le ditte che le rifornivano.
Ieri a Nizza, un terrorista dal profilo ancora incerto (ma francamente cambia poco), ha deliberatamente caricato con un TIR la folla festante per il 14 di luglio (la nostra, non solo francese, “libertà, uguaglianza e fraternità”), maciullando a morte almeno un’ottantina di innocenti, prima di essere ammazzato – contrappasso eccezionale per un jihadista – da una donna-poliziotto.
È la terza volta nel giro di un anno e mezzo che la Francia viene colpita nei suoi “soft target”, anche se l’attacco di ieri segna il punto più basso (militarmente parlando) del jihadismo franco-belga, riprova che le cellule e la loro logistica sono ormai smantellate, non la propaganda d’odio che le alimenta.
È la terza volta, senza considerare gli episodi “minori” e quelli falliti o meno chiaramente classificabili. Senza considerare gli attacchi non francesi da Madrid-Atocha a Bruxelles. Eppure continuiamo a meravigliarci, a restare shockati.
È impossibile proteggere tutti i “soft target” ed è facilissimo fare morti se si decide di colpire una festa di Paese, la folla che esce da una partita di calcio in provincia, quella che entra in una discoteca. Non puó esserci un poliziotto per ogni civile (banalizzando, il “modello Israele”). Le soluzioni sono altre: in primo luogo l’intelligence, che significa ulteriore cessione della nostra privacy alle autorità. In secondo luogo, un piano straordinario di integrazione delle seconde e terze generazioni di immigrati di Paesi mussulmani, di smantellamento dei ghetti, delle mosche nei garage e sottoscala per trasformarle in veri luoghi di culto, di messa al bando dall’Unione Europea e dai balcani delle organizzazioni pseudocaritatevoli finanziare da Paesi estremisti come l’Arabia Saudita, alleati avvelenati.
Ma prima di tutto bisogna capire che siamo in guerra e quindi smettere di meravigliarci. Siamo come in Afghanistan o in Iraq, con la differenza che lì si rischia di morire non tre volte in un anno e mezzo ma spesso tre volte in un giorno, anche per colpa dei nostri jet o dei nostri proiettili – in quest’ultima variante – puntati contro il califfato. Se capissimo che siamo già in guerra la smetteremmo forse di invocarne un’altra (di guerra) ogni volta che subiamo un attacco.
E la Francia – lo dico solo per completezza di cronaca – è in guerra da molte parti, non solo in Siria, ma anche nell’Africa subsahariana dove è sbarcata, lungo antichi richiami geocoloniali, dopo che la propaganda elettorale socialista aveva portato alla fine frettolosa della missione afghana.
Quando dico che dobbiamo renderci conto che siamo in guerra, dico che solo la condovisione mentale di questo “stato” puó portare alla pace. Non mi iscrivo nelle liste sempre più lunghe di chi mostra i muscoli, guerrieri alla George W Bush pronti a mandare centinaia di migliaia di connazionali in guerra dopo aver fatto la guerra in Vietnam a casa sua, in Texas, nella riserva.
Un amico oggi, sulla mia pagina facebook, mi ha ricordato una citazione di un altro George, Orwell, che ho inserito nel mio libro “Afghanistan Missione Incompiuta”.
“Come ricordava Orwell: la propaganda, le urla, l’odio di una guerra arrivano da coloro i quali non la stanno combattendo…”
Nessun’altra frase mi è cara in giornate come questa che non sarà, purtruppo, l’ultima del genere.