Nel 2015, al picco dell’epidemia di Ebola ho lasciato a casa mia moglie. al sesto mese di gravidanza, e mio figlio di due anni e mezzo. Ho preso un mese di ferie, la mia camera e sono partito per la Sierra Leone dove infuriava l’epidemia. Era un personale atto di rivolta.
Trovavo assurdo che nessuno (o quasi) documentasse la peggior epidemia di un virus letale della storia contemporanea, che ci fossimo dimenticati di milioni di africani che, ogni giorno, si svegliavano con la morte in spalla, sol perchè avevamo capito che da noi il virus non sarebbe mai arrivato.
Per girare il mio documentario “Killa Dizez” ho camminato nelle sovraffollate baraccopoli di Freetown tra polvere e rifiuti; accompagnato salme al cimitero; passato ore in mezzo a chi scavava buche per le sepolture e ci calava dentro cadaveri; incontrato persone che attraversavano i confini delle aree in quarantena; entrato nella zona rossa (la corsia inaccessibile, l’area con la più alta concentrazione virale del pianeta); ho passato posti di blocco dove mi obbligavano a lavarmi le mani con l’ipoclorito di sodio (quello che avevo sempre in tasca); sono stato fianco a fianco con veri eroi, persone che avrebbero potuto starsene tranquillamente “a casa loro” e invece si battevano con una mortalità di almeno il 60% (i dati reali su quell’epidemia non li conosceremo mai perchè colpì Paesi già fragili per via delle guerre passate e delle povertà); ho frequentato l’unico ospedale rimasto aperto in tutto il Paese (quello di Emergency) mentre gli altri erano stati chiusi perchè diventati essi stessi focolai di una malattia subdola e brava a mascherarsi da malaria o da dissenteria; ho intervistato sopravvissuti (scopriremo poi, nel cui corpo il virus era probabilmente ancora attivo); ho parlato con personale locale abbandonato dalle famiglie e cacciato di casa perchè lavorava in un centro anti-Ebola, erano quindi untori per definizione; ogni giorno a ora di pranzo ho ascoltato i filo-diretto alla radio in cui si accusava lo straniero (l’uomo bianco) di aver portato la malattia; sentito le canzoni che servivano a convincere la gente che la malattia era “vera” e quindi bisogna prendere vere precauzioni, quelle suggerite dalle autorità non dallo sciamano di turno; mi sono preso gli insulti della gente al mercato perchè “tu butti fango sul nostro Paese”; riportato a casa una bambina di pochi anni, una delle rare sopravvissute al male tra i bimbi…Ma c’è una cosa che non dimenticherò mai:
Era appena finita la traversata notturna della baia su precari barchini, uno scenario drammatico: il buio delle nubi squarciato dal bagliore dei lampi – secondo la leggenda – provocati dai leoni che si arrotano le fauci. A quel punto, in strada, ho visto una squadra di chissà quale sport, correre verso l’alba per tenersi in forma e non perdere l’allenamento.
La carica vitale dell’Africa è potente come il sole che ne incendia o ne annulla i colori a seconda delle stagioni e delle ore del giorno.
Nonostante la morte fosse dappertutto la vita andava avanti.
Cinque anni dopo, mi trovo ad osservare quello che accade nel mio Paese per un virus dalla mortalità di almeno venti volte inferiore e mi rendo conto come le dinamiche della paura siano quasi sovrapponibili nonostante le enormi differenze che separano l’Italia dalla Sierra Leone e il coronavirus da Ebola.
Non occuparci di quello che accade nel mondo può essere comodo ma poi ti ritrovi così a non aver appreso dagli altri e dalla storia, una lezione che ti sarebbe tornata utile.
PS: a proposito nonostante tutto sono sopravvissuto, con un po’ di razionalità e un po’ di forza l’essere umano ce la può sempre fare.
Caro Nico, non mi deludi mai.
A presto!