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“Mio Eroe”, cura per la memoria (e tormento per l’anima)

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Al teatro biblioteca del Quarticciolo, a Roma, ho finalmente visto “Mio Eroe” di Giuliana Musso, dopo averlo sin’ora inseguito senza successo in giro per l’Italia.
E’ un’opera di una potenza scenica assoluta, il cui cartellone riparte dopo l’estate e per vedere la quale vale la pena percorrere qualche chilometro; anche se non ve la trovate sotto casa ma nella vostra regione, andateci.

In un monologo di 75 minuti, Giuliana da in sequenza voce a tre donne che nulla hanno in comune (né il livello culturale, né la storia personale, né lo sfondo sociale in cui si muovono) salvo il fatto di aver perso un figlio in Afghanistan, caduto di una guerra che nessun italiano – tra le migliaia che l’hanno combattuta -ha potuto chiamare tale.

Ne viene fuori un affresco che non cala mai di tensione emotiva, a dispetto di una scena spoglia – dove le quinte e gli effetti speciali non trovano posto – ma riempita fino all’ultimo centimetro cubico dall’ansia, dal dolore viscoso, dalle ossessioni gelatinose di chi ha perso la persona più preziosa al mondo – un figlio – senza potersi darsene ragione.

E’ un’opera popolare nel senso più alto del termine, ovvero divulgativa, che esce dalla categoria ormai, per certi versi, consunta del teatro d’impegno civile e di denuncia. Un’opera che consente – senza necessità di preventiva lettura di trattati di geopolitica – di capire l’assurdità del conflitto afghano, che è poi l’icona per eccellenza dell’assurdità di ogni conflitto.

Il lavoro nasce dalle interviste condotte da Giuliana a madri di caduti in Afghanistan, storie che vengono trasfigurate e lasciano la dimensione strettamente personale (il singolo caso – seppur ancora individuabili da chi conosce la cronaca della “guerra più lunga”) per diventare degli archetipi.

Il lavoro merita di essere visto non solo perché aiuta a capire anche chi pensa che “beh…i militari sono pagati, è un rischio del mestiere” oppure che “In Afghanistan che si ammazzino tra di loro” ma soprattutto perché è un aiuto, forte ma palatabile per tutti, a rimuovere quell’oblio di piombo che è gravato dopo la fine sulla missione afghana e sul relativo investimento di vite e di denaro del contribuente italiano (insomma quello tanto attento all’uso del denaro pubblico che non paga il canone tv più basso d’Europa perché contesta lo spessore culturale del servizio pubblico radiotelevisivo).
Mentre in Paesi come gli Stati Uniti sulla missione afghana si è aperto un dibattito che attraversa i pacifisti come le forze armate, in Italia abbia rinunciato a discutere, ricordare,

“Mio eroe” è un’opera da vedere anche per la sua straordinaria contemporaneità. E’ un’opera che può capire un adolescente, come qualcuno che dopo anni di militanza sta ingolfando le fila del partito dell’astensione. Il lavoro è privo di riferimenti ideologici, di quelle semplificazioni che negli ultimi vent’anni – a mio avviso – hanno messo al servizio delle carriere di pochi degli alti ideali, in nome dei quali milioni di persone hanno fatto sacrifici sperando in un mondo migliore. E’ privo quindi di quei sottintesi, di quelle citazioni, di quelle prospettive che lo renderebbero di lettura ostica a chi ha scoperto le ipocrisie di certa politica o semplicemente è nato dopo il crollo delle utopie.
In questo è un’opera rivoluzionaria perché pur confrontandosi con il tema più divisivo rimasto nella società italiana – il ruolo delle forze armate – non scade né nella retorica dei “nostri ragazzi” né in quella de “i fascisti in divisa”.
Si occupa invece di grandi enigmi contemporanei, valori sempre più liquidi dopo lo scioglimento dei ghiacci dell’ideologia ma sui quali è doveroso se non necessario continuare ad interrogarsi pur senza una bussola bicolore. Come quello, per esempio, dell’intervento militare all’estero (restiamo a guardare i massacri oppure interveniamo per complicare le cose?), del valore della patria (che è cos’altra dalla nazione), di chi è pronto a morire pur di sentirsi vivo, dell’idea stessa dell’eroe (il tema forse più abusato di sempre) e della decostruzione dell’immaginario della guerra dove a morire in minoranza sono i combattenti armati e dove, tra diarrea e  puzza di cordite, di scenografico c’è ben poco.

Un’ultima nota finale, come il “disclaimer” di un elettrodomestico. L’opera è un lavoro originale di Giuliana – prodotto dalla sua compagnia, la Corte Ospitale – ma tra le sue fonti c’è anche il mio libro “Afghanistan Missione Incompiuta”, tanto che ieri ha sentito l’insana necessità di ringraziarmi a fine spettacolo. Non è per questo che ne scrivo bene, penso solo che vale la pena vederlo. Poi fatemi sapere se mi sono sbagliato

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Nico Piro

Provo a dare voce a chi non ha voce, non sempre ci riesco ma continuo a provarci. Sono un giornalista, inviato speciale lavoro per... continua a leggere