Racconta (anche) di “Afghanistan Missione Incompiuta” il testo che segue, mi sembra riduttivo definirlo una recensione, per la sua natura di riflessione sul giornalismo.
E’ comparso il 23/8/16 sulla pagina FaceBook di Roberto Reale, media watcher, docente universitario e giornalista, a lungo vicedirettore in Rai.
Lo ripubblichiamo per gentile concessione dell’autore.
Chi è il giornalista? La faccio brevissima. Per come la vedo io è uno che “indaga il presente” e che fornisce al pubblico informazioni utili che aumentano la conoscenza del mondo in cui viviamo. E’ insomma uno che ti aiuta a capire. E quindi è uno che ha a sua volta studiato, approfondito, riflettuto sulle cose di cui si occupa. E’ una idea “vecchia” questa? Confrontiamola con quella nuova. Sarebbero giornalisti quelli che in tv parlano di tutto senza sapere niente, gente che vive di sentito dire e di “gesti disinvolti” davanti alla telecamera? Oppure è giornalismo quello che rilancia in Rete freneticamente news senza nemmeno verificarle, correndo il rischio di accreditare enormi banalità/sciocchezze?
Molti oggi parlano di “giornalismo di qualità” dicendo che è l’unica strada per salvare una professione, che altrimenti non avrebbe più ragione di essere in un mondo dove circolano enormi quantità di informazioni che non passano però attraverso il filtro di “mediatori certificati”. Peccato però che poi le stesse aziende editoriali puntino a ridurre i costi, impoverire il prodotto, ammazzare qualsiasi entusiasmo per i contenuti. Ma, detto questo, non ci sono alibi che tengano: per avere la qualità ci vogliono ( da parte di chi scrive o racconta con altri strumenti) dedizione, impegno, capacità di elaborazione.
Mi sono tornate alla mente queste considerazioni leggendo in queste settimane un reportage e un libro. Il primo è “Terre Spezzate” di Scott Anderson giornalista e scrittore americano ( le foto sono di Paolo Pellegrin). “Viaggio nel Caos del Mondo Arabo” ha titolato Repubblica che ha offerto al pubblico italiano il lavoro prima in un inserto di 32 pagine e poi online http://www.repubblica.it/…/18/news/terre_spezzate-146064379/.
Si tratta di un affresco potente. Un racconto che parte da lontano, focalizza vicende fondamentali, la invasione dell’Iraq del 2003, le Primavere Arabe, l’avvento dell’Isis, la questione Curda, il quadro attuale. Sono le storie di 6 persone a fare da filo conduttore. Se mai vi siete chiesti perchè le Primavere abbiano prima vissuto una brevissima stagione di speranza e poi siano “collassate” nello scontro fra dittatori vecchi e nuovi e fondamentalisti islamici qui potete trovare delle risposte importanti.
Ma per leggere un lavoro con un così alto tasso di approfondimento e spessore giornalistico occorre andare necessariamente negli Stati Uniti?
No, non necessariamente. E vengo alla seconda segnalazione, questa volta di un libro, di un inviato della Rai che ha adottato per moltissimo aspetti uno stile di lavoro analogo a quello di Anderson. Si tratta di “Afghanistan Missione Incompiuta 2001-2015” di Nico Piro http://www.lantanaeditore.com/…/afghanistan-missione-incom…/ Già la stessa dimensione del volume (oltre 600 pagine) fa capire che non si tratta di un lavoro superficiale, del resoconto volante di impressioni di un occasionale “visitatore” del paese. Non è così: siamo alla ricostruzione puntuale di un conflitto lunghisssimo (oltre 15 anni) di cui non si vede la fine. Piro è doppiamente coraggioso, perché si batte contro due tabù. Da un lato sfida la rimozione che in tutto l’Occidente c’è stata della questione afgana. Quella guerra da anni non sembra fare più notizia, è finita in una sorta di limbo. Eppure continua essendo le ragioni del conflitto tutt’altro che risolte. Se si pensa che è cominciata subito dopo l’11 settembre, che ha visto e vede coinvolti gli eserciti di tutto l’Occidente questa rimozione pare ancora più colpevole, quasi che l’informazione oggi fosse incapace di affrontare fenomeni di “lunga durata”, li ritenesse “mediaticamente” consumati e quindi in sè non più interessanti. L’altro tabù è quello della lettura. Oggi sembriamo attratti unicamente dai titoli, dai testi brevissimi, mordi e fuggi. E invece Afghanistan Missione Incompiuta sfodera l’arma della buona scrittura. C’è il racconto in prima persona, il resoconto delle cose viste e vissute, ma ci sono pure una documentazione rigorosa, la ricostruzione delle vicende che hanno visto coinvolti i militari italiani ( abbiamo come dimenticato pure loro, i caduti civili o in divisa), i volontari alla Emergency Infine ci sono elementi di analisi su economia, armamenti, sulle nebulose prospettive politiche. Un mix che onestamente funziona, mantiene desta l’attenzione, arricchisce il lettore.
Mi ha ricordato libri come “Vietnam una sporca bugia” di Neil Sheehan. Il New Yorker recensì quel volume dicendo che la guerra era raccontata come un'”Odissea di passione e follia”. Due ingredienti che ritrovate pure nella “Missione Incompita” di Piro soprattutto nella capacità che lui ha di farci vivere l’assurdità di un conflitto dove i militari stranieri sono sentiti dalla popolazione ( al di là delle loro stesse intenzioni) come degli alieni, portatori di tecnologie belliche e di visioni del mondo ignote e incomprensibili. Una incomunicabilità quasi assoluta che nasce ( tranne che per alcuni meritevoli tentativi purtroppo isolati) dalla lontananza di culture. Sul terreno si incontrano due mondi che non si conoscono, che si parlano con le armi in un braccio di ferro che chi arriva da lontano non potrà mai vincere. Per questo Piro ricorda giustamente pure i precedenti: le invasioni fallimentari del paese da parte di inglesi e russi.
Possibile che la storia non insegni mai nulla? Viene da chiedersi.
A corredo del tutto nel volume c’è pure una parte fotografica, quasi a ricordarci che oggi ogni racconto ha bisogno pure di immagini per poter vivere. Si coglie il profondo affetto che l’autore prova per quel paese che non certo a caso definisce “il più bello del mondo” smontando i pregiudizi di chi lo ha visto in tv solo come una landa povera e polverosa.
E qui siamo all’ultimo punto che torna a riguardare il Giornalismo, quello vero. Diceva Ryszard Kapuscinski che non puoi scrivere dell’Africa senza provare empatia per le sofferenze della popolazione, senza sentirle proprie, adottare il loro punto di vista. Leggendo questo libro si ritrova in pieno questa regola aurea dell’inviato che vuole capire e riportare ai suoi compatrioti quanto ha visto/vissuto. Vale pure per un paese eternamente in guerra come l’Afghanistan.