E’ la terza volta negli ultimi mesi che un kamikaze colpisce con una bomba nascosta nel turbante, “sacro” per ogni afghano del sud perchè è la cosa più intima che un pasthu possa indossare. O almeno è questo il conteggio che ho fatto io, considerando gli attacchi alla moschea dove si celebrava la memoria dell’appena ucciso “re” di Kandahar, il fratello di Karzai, e poi l’assassinio del sindaco della stessa città. Oggi il turbante è esploso in una casa di Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale di Kabul, dove molti ex-signori della guerra hanno costruito le loro case. La sto prendendo alla larga – lo ammetto – ma la notizia di cui sto scrivendo è di una gravità senza precedenti nel senso che avrà ripercussioni di lungo termine e merita di essere raccontata bene nei dettagli.
Quando la bomba è esplosa oltre a decapitare il kamikaze ha ucciso l’uomo che lo stava abbracciando ovvero l’ex-presidente Burhanuddin Rabbani, che guidò l’Afghanistan dopo la caduta di Najibullah (l’ultimo leader filo-sovietico) prima di venir anch’egli cacciato ma quella volta dai talebani.
Rabbani aveva avuto da circa un anno l’incarico di guidare il consiglio per la riconciliazione nazionale alias di occuparsi delle trattative di pace con i talebani. Ed è stato ucciso proprio mentre incontrava una delegazione di ribelli. Un altro segnale di come le infiltrazioni talebane ormai siano sempre più capillari negli apparati di sicurezza e più in generale governativi.
Rabbani aveva le mani sporche di sangue, come tutti quelli che hanno preso parte alla guerra civile e al massacro di un’intera città, Kabul, negli anni ‘90. Mi dispiace dirlo nel giorno della morte di uomo perchè non vorrei essere frainteso: niente può giustificare un omicidio; ma è un elemento importante per capire che non è stato ucciso un eroe nazionale nè qualcuno a cui il popolo afghano era particolarmente vicino. Infatti la sua scelta come capo dell’High Peace Council aveva sollevato non poche polemiche, figlia dell’ennesima alchimia etnico-politica di Karzai, l’equilibrista.
Eppure, nonostante questi elementi, l’omicidio di oggi avrà effetti di lungo periodo perchè rappresenta il timbo a cera lacca sul fatto che le trattative di pace in Afghanistan sono al momento impossibili.
Negli ultimi due anni abbiamo sentito ripetere come un mantra dai vertici militari e politici della coalizioni che bisognava sedersi al tavolo delle trattative con un posizione di forza ecco perchè intanto i marines avanzavano (e morivano) tra i canali d’irrigazione della green zone, la zona coltivata lungo il fiume Helmand. Al momento l’impressione è che la posizione di forza (almeno sul piano psicologico e del rapporto con la popolazione) l’abbiano raggiunta i talebani, con una serie di attacchi nel cuore delle città e una raffica di omicidi mirati alias una campagna di terrore su vasta scala.
Non solo sarà adesso difficile trovare un sostituto con l’autorevolezza (perchè questa non gli mancava) di Rabbani ma soprattutto oggi si è rotta un’usanza quella che consente a due avversari afghani di incontrarsi, magari tra mille ipocrisie ma senza farsi del male, anche se poi dopo i saluti si ricomincia a spararsi addosso.
L’episodio di oggi crea un tale clima sospetti e diffidenze che renderà sempre più difficili incontri trasversali e clandestini come quelli necessari a portare avanti un processo di pace. Un omicidio condotto in maniera audace che contribuisce a diffondere nel Paese quella sensazione di insicurezza, la sfiducia in un governo incapace di difendere sè stesso e i suoi uomini.
Un omicidio che fa pensare per la sua dinamica infida all’uccisione di Massoud, ammazzato da due finti giornalisti con telecamera al tritolo.
La settimana scorsa il leader dell’organizzazione ribelle forse più pericolosa del Paese, ovvero il network Haqqani, si era fatto sentire con la Reuters (cosa molto rara per Sirajuddin, il giovane Haqqani) annunciando che i suoi uomini avrebbero deposto le armi se i talebani si fossero pronunciati a favore della pace.
Chiacchiere per ora, mentre il numero dei militanti che hanno effettivamente deposto le armi a fronte del programma per il reinserimento nella società (incentivi alla rottamazione dei kalashnikov…) è andato ben oltre i suoi obiettivi con 2500 miliziani usciti dalla clandestinità. Purtroppo sono solo soldati semplici delle forze anti-governative per lo più attivi non nelle zone più calde del Paese. Anche il processo guidato sin’ora da Rabbani non era riuscito a scalfire il nocciolo della dirigenza ribelle che ormai sembra aver capito che, forse, combattere consentirà loro di riprendersi tutto il Paese senza dover mediare con nessuno, del resto c’è solo da aspettare fino al 2014 mentre Karzai è un uomo sempre più solo. Il presidente più solo del mondo come racconta questa esclusiva del britannico, The indipendent…
http://tashakor.blog.rai.it/2011/09/21/la-morte-porte-il-turbante/