Oggi ho incontrato una donna, eravamo in uno dei più caotici incroci di Roma tra una fermata di metropolitana che vomitava folla, lo stridente passaggio del tram, colonne di turisti e pendolari. Eppure eravamo insieme a Kabul, una città dove Barbara Siringo non è mai stata ma che, nel febbraio del 2006, le ha restituito suo fratello in una bara. Barbara da oltre 1700 giorni lotta contro un muro di gomma, denuncia tentativi di insabbiamento, prova a tenere in vita la speranza. Ormai non parla più di vittoria della giustizia, le basterebbe solo che la memoria di suo fratello venisse ripulita dall’infamia della tossicodipendenza.
Barbara, qualche mese fa, ha incontrato sulla sua strada un gip, un giudice delle indagini preliminari, Rosalba Liso, che si è rifiutata di archiviare le indagini, chiedendo un approfondimento sull’inchiesta.
Approfondimento che sin’ora ha portato ad almeno una novità, la perizia tossicologica che proverebbe come la droga che ha ucciso il fratello di Rosalba, Stefano, e il suo collega ed amico, Iendi Iannelli, fosse pura all’89%, in pratica una follia che nessuno spacciatore farebbe mai sia per non “perdere” i suoi clienti, sia per non perdere gli introiti di una dose che solitamente è pura dieci volte in meno.
Una piccola svolta che torna a far parlare del misterioso caso (qui il mio pezzo al Tg3 delle 19 di oggi) e dà forza alle ipotesi della famiglia Siringo che denuncia in realtà l’omicidio, mascherato da incidente, dei due cooperanti italiani che a Kabul lavoravano al progetto (per la ricostruzione della) giustizia in Afghanistan.
Un presunto omicidio, secondo la famiglia, che troverebbe il suo movente nella scoperta da parte dei due giovani di un giro di fatturazioni false, in pratica fondi neri per sottrarre soldi alla ricostruzione. A dicembre sapremo a cos’altro questo approfondimento delle indagini avrà portato, speriamo anche alla testimonianza per rogatoria internazionale del magistrato messicano – all’epoca impegnato nel progetto – che denunciò il fosco scenario.
Un mistero afghano, questo, sostanzialmente “riaperto” anche grazie alla caparbietà di Carlo Lania de il Manifesto che, con Giuliana Sgrena, ha seguito la vicenda e tutti i suoi risvolti.
Gli incroci, anche quelli stradali, nella vita non sono mai casuali e quello dove oggi ho intervistato Barbara è poco lontano dalla sede dell’IDLO, l’organizzazione intergovernativa per la quale lavorava Iendi. L’approfondimento giudiziario ci dirà anche se l’organizzazione ha collaborato o meno alle indagini, senza trincerarsi (semplifico così una situazione complesso) dietro il suo status extra-territoriale. Nel frattempo questa donna minuta dagli occhi che si illuminano di lampi di determinazione non smetterà di chiedere giustizia. Non smetterà di rimbalzare sul muro di gomma – di cui mi ha parlato oggi – fino magari a sfondarlo; sarebbe giusto per lei, per la memoria di Stefano e Iendi ma anche per la serenità di tutti noi che quei fondi finanziamo con le nostre tasse e per coloro che, sin’ora, si sono sacrificati, in un modo o nell’altro, per l’Afghanistan.
sarà molto duro per Barbara sapere la verità, non credi?
Ciao Cesare, la verità la conosco da sempre, ho solo bisogno che venga ammessa! Stefano era un bravo ragazzo e la sua memoria, dopo quasi 5 anni, è ancora infangata
Grazie di cuore, Nico, per le splendide parole che mi hai dedicato. Ci siamo incontrati per 5 minuti eppure hai saputo leggermi nell’anima. Un abbraccio