Quando muoiono dei militari in Afghanistan, ricomincia il dibattito su perchè siano stati mandati così lontano da casa e cosa stiano facendo laggiù. Quando muore un giornalista, la risposta è semplice e non richiede un dibattito sulla guerra al terrore: era laggiù per raccontare cosa sia davvero la guerra. A tutti, in particolare – in tempi di festività – a chi stappa lo spumante e taglia il panettone al caldo della propria casa con l’unico pericolo che qualche imbecille spari a mezzanotte un fuoco d’artificio illegale. Perchè una guerra si può raccontare solo dalla prima linea.
“If I blow up, I’ll blow up”. Se salto in aria, salto in aria – si ripetono, quasi sempre, prima di partire in convoglio i militari (e i giornalisti) che stanno salendo su un mezzo “blindato” in Afghanistan. Per fortuna, non capita quasi mai, quasi…ma lo spettro dell’esplosione ti accompagna per tutto il percorso e oltre.
Il nitrato d’ammonio è un magnifico fertilizzante, in Pakistan si può comprare anche quello ad alta concentrazione: l’ideale per “impastare” una bomba come quelle che nei freddi comunicati militari vengono definite “homemade bomb”, ordigni fatti in casa. L’utilizzo di fertilizzante piuttosto che di vecchie munizioni (colpi di mortaio, rpg e varie che in Afghanistan abbondano) rende l’IED così prodotto virtualmente invisibile ai metal detector, perchè di metallo non ne contiene affatto.
Proprio per l’esplosione di un ordigno del genere, ieri, come capitato sin’ora a centinaia di militari, è morto un altro giornalista: Rupert Hamer del britannico “The Sunday Mirror”. Stava viaggiando con un convoglio di US Marines nella provincia di Hellmand, con lui sono morti un militare americano e uno afghano, altri quattro sono stati seriamente feriti. Assieme ad Hammer c’erà un fotoreporter della stessa testata, Philip Coburn, 43 anni, ferito ma in condizioni definite stabili (una rassicurazione sul fatto che non è a rischio della vita ma definizione che nulla dice sulla portata delle sue ferite). Hamer è il secondo giornalista embed nel sud del paese con le truppe occidentali, a venir ucciso dopo Michelle Lang del “The Calgary Herald” – morta in circostanze analoghe.
Nel suo ricordo del collega scomparso, il giornale britannico scrive:
“Rupert believed that the only place to report a war was from the front line, and as our defence correspondent he wanted to be embedded with the US marines at the start of their vital surge into Southern Afghanistan. One of his last acts was to organise a special Christmas newspaper produced solely for the troops packed with messages from loved ones which was flown out by the RAF three weeks ago. He was a fine, fearless, and skilled writer who joined the paper 12 years ago. Affectionately known as Corporal Hamer in the office, he was a gregarious figure , a wonderful friend who was hugely popular with his colleagues”.
La morte di Hammer come l’uccisione della Lang al di là della loro drammaticità, incancellabile per chi fa il loro stesso lavoro e per chi (magari senza rendersene conto di quanto sia complesso produrli) legge, guarda o ascolta i racconti da un paese in guerra, mette in evidenza un dato nuovo sul fronte afghano. Nel sud del paese sembra si stia smentendo un classico assioma: ovvero che la guerra in Afghanistan è una guerra stagionale, interrotta da una “climatica” tregua invernale. Un apparente cambiamento che sarà il caso di tenere sotto controllo nelle prossime settimane. Per ora ci resta l’amarezza di due colleghi morti a cavallo tra dicembre e gennaio, il periodo più tranquillo (almeno sin’ora) per stare in prima linea, di solito richiesto dalle testate solo per celebrare il natale e il capodanno dei militari all’estero. Non a caso Hammer aveva appena realizzato un numero speciale della sua testata pensato proprio per le feste natalizie del contingente britannico. Chiamatelo pure scherzo del destino, non riporterà in vita nè Lang nè Hamer, nè i militari morti assieme a loro.
A conferma del trend che si metteva in evidenza nel post (l’apparente fine del ciclo annuale del conflitto afghano) vedi qui
http://www.nytimes.com/2010/01/12/world/asia/12afghan.html?hp