Sono in una nuova piccola base, sempre nella provincia di Kunar, siamo arrivati di notte con un blackhwak che ha sfiorato i fianchi delle montagne per poi posarsi con le consuete maniere spiccie di chi pilota da queste parti su una pista di cemento, per una volta l’onda di terra e sassi che ci investe alla discesa è stata meno forte del solito. In questa base si spara tanto, siamo esposti su tutti i lati e i militari americani devono lavorare tanto per evitare che qualcuno si apposti sui crinali. A questo servono molti dei colpi di mortaio che ci accompagnano per buona parte della giornata, assieme al rombo dei jet che sembra quasi irreale in uno scenario naturale selvaggio come quello che ho davanti.
Ho cambiato base ma non posso non raccontare (lo farò presto con un servizio al Tg3) quello che ho visto l’altro ieri in un’altra fob (forward operating base). Era quasi l’ora del tramonto quando abbiamo sentito il sibilo di razzi (?) o colpi di mortaio (?). Col tempo ci si fa l’abitudine, nemmeno ci si distrae al boato, anche perchè quasi sempre si è sicuri che siano colpi “outgoing” non “incoming” insomma che siano per gli altri non per noi. Questa volta invece era proprio per noi, per fortuna sono finiti fuori bersaglio, purtroppo sono finiti sulle case dei villaggi vicino alla base. In breve all’ambulatorio della fob americana sono arrivati tre feriti: un uomo “stabilizzato” e poi trasferito dai parenti con un pick-up all’ospedale della capitale provinciale, due bambini. Uno di loro aveva i polmoni collassati, i paramedici militari sono riusciti a rimettergleli in sesto, non so quali danni si porterà dietro. Stava giocando in strada, poi l’esplosioni poi…Le vittime (in)civili hanno purtroppo sempre un nome e cognome, un volto anche negli episodi minori, anche quando i media si dedicano a contare (come sta accadendo a Kunduz in questi giorni) quanti talebani e quanti civili uccisi, perdendo forse d’occhio il punto principale: che una vittima civile, anche una sola, è troppo.