Il giovane giornalista di Mazar-i-Sharif, da oltre un anno in carcere per aver offeso il corano, prima condannato all’ergastolo (sentenza poi commutata in vent’anni di carcere) dovrà scontare la pena stando alla notizia (diffusa da Human Right Watch) che questa seconda condanna per blasfemia è stata confermata dalla Corte suprema afghana. La notizia è arriva alla famiglia di Perwez Kambakhsh solo dopo che è stata trasmessa alle autorità della provincia di Bhalk per essere eseguita.
La conferma della condanna è infatti avvenuta (e non è una novità in questa vicenda) in una seduta chiusa al pubblico e di fatto segreta. Parwez ha scritto o meglio solo diffuso (perchè afferma di averlo scaricato da Internet) un articolo sui diritti delle donne e l’Islam tra compagni di classe del suo corso universitario. Secondo molti però è stato “incastrato” per colpire suo fratello Ibrahim, giornalista che ha più volte denunciato i traffici e gli affari dei signori della guerra della provincia (l’ho incontrato e intervistato per il Tg3 un anno fa a Kabul, poco dopo che era stato sollevato il caso e lui stesso conferma questa spiegazione).
E’ una storia quella di Parwez che ha trovato grande eco all’estero e sintetizza i limiti nel processo di riforma e “costruizione” del sistema giudiziario afghano (processo finanziato dall’Italia), le crescenti pressioni sulla vivace stampa afghana e la deriva integralista in alcuni ambienti governativi del Paese. Sulla sua storia proverò a tornare in un post più approfondito.