Prendete un comandante di compagnia (ovvero un giovane ufficiale) mettetelo a capo di una Fob (una base operativa avanzata) magari in una remota valle dove, per esempio, da secoli non si vede il segno di un’autorità esterna (esercito, polizia, governo, ecc. ecc.) diverso dagli anziani della tribù dominante (perchè spesso ce n’è più di una sullo stesso territorio). Beh, mi è capitato di vederne diversi in Afghanistan e francamente l’impressione che ne ho avuto è che stessero provando a fare un lavoro (quello del mediatore culturale) per il quale non erano stati formati. Insomma che le forze armate (a prescindere dal paese di provenienza) gli stessero chiedendo di fare qualcosa diversa da quella per la quale avevano studiato. Diversa dal combattere, diverso dal garantire la sicurezza, diverso dal ricostruire (che pure per un militare, salvo gli specialisti delle cellule CIMIC, non è un compito standard). Qualcosa che al di là degli sforzi dei singoli (che per mia esperienza personale ho visto essere notevoli) non poteva che essere raggiunto con degli specialisti, da non confondersi ovviamenti con l’intelligence che – a scando di equivoci – fa un altro lavoro.
“Human Terrain” è il nome del progetto avviato in Afghanistan da qualche tempo (non con gran tempismo) dalle forze armate americane, unità di antropologi o comunque esperti del paese (genericamente social scientist), che seguono le truppe e che dovrebbero appunto colmare quel “vuoto” di competenze che indicavo sopra, evitando quei fraintendimenti che possono portare a conseguenze catastrofiche. Dovrebbero insomma “disegnare” la mappa del “terreno umano” (o meglio del contesto socio-culturale).
Sin’ora se n’è parlato molto poco se non per un episodio tragico: il 4 novembre scorso nella provincia di Kandahar, una specialista del programma (forse perchè non indossava il velo – non è chiaro) è stata data alle fiamme da un abitante di un villaggio poi arrestato. Poco dopo, un collega della donna (un altro contractor, ex-guardia del corpo del presidente iracheno e di quello afghano – non chiedetemi perchè fosse considerato un social scientist) lo ha ucciso, in quella che è sembrata una vera e propria esecuzione (oggi è accusato di omicidio di secondo grado, per vendetta). La descrizione più completa della vicenda ritengo sia questa di wired news. Dallo stesso articolo ecco un estratto che sintetizza tutte le critiche piovute sul progetto HT:
Inside the military, there was been intense criticism of BAE’s hiring and training practices. Researchers have been hired who have never even visited -– much less studied –- the areas in which they’re supposed to serve as experts. Social scientists have been thrown off of their teams, and even sent home early from Iraq. Qualified candidates were booted out of the program, for flimsy reasons. Civilian academics, on the other hand, have blasted the program for putting both researchers and research subjects at risk.
Un articolo pubblicato di recente è il primo, che mi risulti, frutto di un embed con un team HT. E’ stato pubblicato sul Men’s Journal di Febbraio e l’ha scritto Robert Young Pelton, autore (più che giornalista) noto per le sue numerose “avventure” (il termine che lui stesso usa) in aree di crisi. Beh, vi consiglio di leggere i commenti in coda all’articolo, lo stile gigionesco del pezzo, l’omissione e gli errori in alcuni dettagli tecnici, l’impressione di un’esasperazione dei toni nel racconto e di una tesi precostituita da raccontare ecc. ecc. hanno scatenato le reazioni (furiose) di tanti militari (e non). Reazioni per giunta molto ma molto puntuali come si può vedere dal blog di “Bill and Bob’s…” . Leggendolo ognuno può farsi un’idea, conservo i miei dubbi sulla gestione del progetto HT (che condivido come idea pur tardiva) ma ho trovato il pezzo faticoso da leggere proprio per il suo stile “splendido”; soprattutto l’ho trovato poco utile alla comprensione. L’ho letto con avidità perchè dal primo pezzo del genere mi sarei aspettato altri dettagli sul progetto in sè, piuttosto che righe su righe di descrizioni con metafora e impressioni personali dell’autore (lo stesso dubbio che ho sul lavoro di Ross Kemp, dove però le immagini aiutano a compensare il tutto) che, alla fine della fiera, non penso aiutino a capire qualcosa in più della situazione in Afghanistan.
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