Da qualche giorno il sito del quotidiano britannico The Guardian (lo segnalo in ritardo perchè nell’ultima settimana problemi tecnici mi hanno impedito un aggiornamento costante di questo blog) ha pubblicato un ultimo video di John D McHugh. Il titolo è inequivocabile “Combat Outpost: exclusive film from the Afghan frontline”. I combat outpost o firebases sono degli avamposti dipendenti dalle FOB (forward operation bases, basi di taglia medio-piccola attraverso le quali si articola la presenza Isaf e americana in Afghanistan). Quasi sempre sono dei fortini isolati in aree remote, dove le condizioni di vita sono durissime e dove si combatte praticamente ogni giorno. Questo video è girato nella provincia di Kunar, al confine con il Pakistan, nell’avamposto Seray collocato in mezzo alle montagne in una zona dove persino i rifornimenti devono arrivare per via aerea. In pratica, l’impossibilità di controllare il territorio trasforma questa base in un facile bersaglio (“loro vedono noi, noi non vediamo loro”), un “bullets magnet” e racconta in pochi minuti tutte le difficoltà attuali della “guerra” in Afghanistan, uso le virgolette perchè quella che si vede non assomiglia per nulla (mi riferisco all’aspetto militare) molto ad una guerra in senso stretto, allo scontro tra due formazioni (come accadeva anche ai tempi dei sovietici). I militari nell’avamposto non sono inquadrati nell’Isaf, sono ETT, ovvero di consiglieri miltiari americani che addestrano l’Ana (Afghan National Army).
Qualche parola per McHugh, che è diventato una sorta di leggenda tra gli “appassionati” di Afghanistan. Ne ho sentito parlare la prima volta a Baghram, era appena arrivata la sua seconda richiesta di embed con Isaf. La prima era finita in ospedale militare, prima in Afghanistan, poi in Germania, infine in un ospedale del servizio sanitario britannico. John, ferito durante un imboscata in Nuristan (qui le foto), ripresosi dalla convalescenza ha capito che non poteva fare a meno dell’Afghanistan, si è licenziato dalla sua agenzia e ci è tornato da freelance, buona parte del suo lavoro è pubblicato dal The Guardian. La sua storia dice molto sulla capacità dell’Afghanistan di affascinare, all’estremo, chiunque abbia avuto l’occasione di visitarlo e di viverlo.